"Perché una realtà non ci fu data e non c'è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile"

(Luigi Pirandello)

lunedì 31 agosto 2009

Parentesi bioetica. Sull'aborto, la RU186, l'obiezione di coscienza.

A partire da un articolo di Silvia Ballestra: "La tecnica, l'etica e il corpo femminile".





Vi avevo anticipato che mi sarei ritagliata momenti dedicati alla riflessione e squarci grandi per la bioetica, insieme alle solite ricette.

E questo è uno di quei momenti.
La bioetica  ormai per me è diventata una fissa: un habitus mentale, un crtiterio di selezione quasi automatico delle notizie che leggo o che scorgo. Da quando ho deciso che quello sarebbe stato il mio argomento di tesi, non mi ha abbandonato un solo istante. 
Ho solo il rammarico di non riuscire a restare sempre aggiornata sugli ultimi svolgimenti del dibattito bioetico che rivela tuttavia continuamente nuove chicche e spunti di riflessione: questa che vi accenno qui è stata destata da un articolo di Silvia Ballestra, scrittrice italiana attiva fin dal 1990 e sensibile ai temi dell'aborto e della questione femminile (di lei ho letto il libro Piove sul nostro amore. Una storia di donne, medici, aborti, predicatori e apprendisti stregoni, edito nel 2008 da Feltrinelli), pubblicato su "Repubblica" il 21 agosto 2009, cioé pochi giorni fa.
La Ballestra parte dall'auspicio, evidentemente pronunciato da Umberto Veronesi, del conseguimento di una parità assoluta uomo-donna, senza mezzi termini. E si sofferma a riflettere sull'argomento bioetico tra i più scottanti di questo periodo, più che altro per il gran, prevedibile, polverone, sollevato dalla Chiesa e dai chiesaroli che invadono il Parlamento italiano. Mi sembra di poter sintetizzare la questione che muove l'articolo, o alla cui luce comunque l'ho letto, con la domanda più elementare e forse la più filosofica del mondo: "Perché?"
Perché accanirsi contro la pillola abortiva, quando la legge 194 (quella che regola l'aborto chirurgico) è stata accettata, anche se con una certa amarezza (ancora, in effetti, viene spesso messa in discussione o attaccata), da 30 anni ormai? Perchè, alla resa dei conti, che differenza fa?
Aborto è sempre aborto, e una volta che lo si giudica moralmente disdicevole, lo è sia praticato con la chirurgia che con la pillola. In questo senso mi ritrovo, ahimé, d'accordo con la senatrice Pd (oltretutto numeraria dell'Opus Dei) Paola Binetti che, in un articolo del 31 luglio 2009, sostiene che "non è il modo che cambia la sostanza e l'aborto è sempre sbagliato per un cattolico"

La Ballestra si pone la mia stessa domanda: "Ma perché desta tanto scandalo la pillola abortiva quando l’aborto è legale da trent’anni? Qual è il vero salto culturale? Cos’è che turba tanto gli oppositori più veementi?"
Bagnasco, presidente della Cei, ha parlato di "banalizzazione dell'aborto"... come se l'aborto stesso fosse banalizzabile in qualche modo, come se una donna che sceglie di abortire lo facesse a cuor leggero.
In un altro articolo ancora, pubblicato su L'Unità il 5 gennaio 2009, la stessa Ballestra affronta il problema della banalizzazione, chiedendosi se davvero la pillola arriva a rendere più facile l'aborto stesso: "Sono argomenti usati soprattutto dagli uomini (i preti, Ferrara, e ciellini vari). L’aborto medico, come raccontano le stesse donne francesi che lo scelgono in gran numero sin dal 1981, non è meno umiliante, lacerante e traumatizzante dell’aborto chirurgico. Semmai può risultare più doloroso dell’altro che prevede un’anestesia, spesso totale. La Ru 486 comporta sanguinamento, come tutti i farmaci ha delle controindicazioni, non si può prevedere il momento in cui avverrà l’espulsione, deve essere presa entro la settima settimana di gravidanza. In più la donna segue in piena coscienza – anzi, deve proprio controllarne l’andamento – il processo abortivo. Dunque dove starebbe la famigerata «banalizzazione»? Banalizzazione è un termine usato in assoluta malafede dai cosiddetti «prolife» per non rivelare la vera conquista della Ru 486. Il metodo medico non semplifica l’aborto in sé: ne semplifica le procedure."
Ne semplifica le procedure. Non semplica l'aborto stesso.
La Ballestra offre una interessante chiave interpretativa riguardo alla posizione dei pro-life nei confronti della pillola abortiva. Tutto sta, a suo parere, nell'autonomia guadagnata dalla donna nei confronti del medico, che è in parte sollevato da parte del lavoro.
Spesso fanno passare questa RU186 come una caramellina che una mastica senza riflettere, senza pensare, con leggerezza e quasi allegria: ma è ovvio che non è così! che essa non viene data a cuor leggero e banalmente... E' necessaria comunque, ovviamente, la figura del medico, che deve "verificare che vi siano le condizioni adatte, seguire il buon andamento, verificare l'esito". Non capisco come si possa pensare che si arrivi a distribuire la RU186 nei distributori automatici...
Eppure il medico qualcosa ci perde, nel senso che è esonerato da parte del lavoro, che viene svolto attivamente, coscientemente, dalla donna stessa.
La Ballestra riporta una testimonianza che mi ha lasciato l'amaro in bocca, perché evidenzia la grande potenzialità della pillola abortiva: la piena, totale, presa di responsabilità da parte della donna stessa, l'assunzione totale e autonoma della sua (checché se ne dica) dolorosa scelta: "Colpisce una testimonianza riportata da Giovanni Fattorini nel suo libro 'Aborto: un medico racconta trent' anni di 194:' parla di una ragazza che ha scelto la Ru186 non per la minore invasività, ma per la volontà di vivere fino in fondo l' esperienza del lutto, lontana da ipocrisie sanitarie. 'Aveva deciso di rinunciare a un figlio e voleva farlo lei, non delegarlo a nessuno [...]' "
Si tratta quindi, dice Ballestra, di un ulteriore atto di autodeterminazione. La cosa che nel dibattito sembra non emergere, e Ballestra lo nota fin dall'inizio, è che nessuna è costretta ad accettare la RU186, così come nessuna è costretta ad abortire, sia chirurgicamente che farmacologicamente: si tratta semplicemente di una ulteriore possibilità di scelta, di una nuova opportunità, di un'alternativa che, ovviamente, non va affrontata a cuor leggero (è necessario consultarsi col proprio medico, visto che la RU186 non è adatta a tutte... così dice Ballestra, e io faccio l'azzardo di fidarmi ciecamente). E' un'alternativa, una possibilità, una opportunità, che non vincola e non obbliga nessuna a percorrerla.Il fatto che si possa abortire, e che si possa abortire farmacologicamente, non implica che si debba abortire!
La discussione rischia di scivolare sulla questione del potere e del dovere, che non voglio affrontare e che comunque vale per l'aborto in generale, e non solo quello farmacologico... e quindi svicolo al risposta a quel perchè con cui ho iniziato. (En passant, noto che nemmeno penso di potervi rispondere, in tutta sincerità... non ho gli strumenti per farlo... perdonatemi questo lapsus freudiano in cui manifesto indubbiamente una certa presunzione)
Perché questa obiezione sfrenata alla RU186? Ballestra da' due interpretazioni alquanto interessanti: la conquista maggiore, ancora, dell'autodeterminazione, della possibilità di esser parte attiva della propria scelta. Sembra quasi che sottintenda che coloro che si oppongono alla RU186 abbiano qualcosa da ridire con una maggiore autodeterminazione, soprattutto nel campo della scelta dell'aborto. Una maggiore possibilità di scelta (una nuova scelta riguardo alla modalità dell'abortire) non può che far paura a chi vi si oppone con tutte le sue forze catalogandolo come atto immorale.
Non che questo dia più credito al loro spauracchio secondo cui con la RU186 gli aborti aumenteranno... Non si abortisce per gioco ma dopo una dolorosa scelta. Credo che entrambe le modalità prevedano un precedente lavoro di riflessione e valutazione, che l'aborto farmacologico non sminuisce affatto.
E poi Ballestra solleva un argomento ancor più interessante, e su cui mi interrogo da un annetto: il fatto dell'obiezione di coscienza. In teoria tutti possono essere obiettori, anche chi spazza la sala operatoria (non so se c'è qualcuno che spazza la sala operatoria... ma era per rendere la portata della cosa): infermieri, anestesisti, ginecologi, persino portantini...
Con la RU186 la cosa si fa più circoscritta (solo al medico e al paziente) e l'obiezione sembra, anche a questo livello, perdere molta della sua forza. E questo spaventa quelli che, giudicando l'aborto sbagliato sempre e comunque, vedono nell'obiezione di coscienza un buon modo per frenare la pratica abortiva. La RU186 quindi secondo Ballestra "è anche un ottimo modo per risolvere, in parte, l' annoso problema dell' obiezione di coscienza che - al contrario delle interruzioni di gravidanza, dimezzate in trent' anni - è la vera emergenza a proposito di aborto."
E allora capisco, provo a capire, la paura e l'allarme all'arrivo di questa pillola. S'indebolisce l'arma dell'obiezione di coscienza, che ancora non riesco a comprendere: cercate di capirmi, ho provato a spiegarmela, a darle un senso. E forse un senso lo ebbe quando, nel 1978, fu emanata la 194, che coinvolgeva medici che fino a quel momento erano stati (ufficialmente) interdetti nel praticare l'aborto. Era giusto, in un certo senso, tutelarli, una volta introdotta tale novità.
Ma adesso non è mica più una novità! Voglio dire, una volta che uno decide di fare il medico, lo sa che l'aborto è legale, lo sa che uno dei suoi compiti, insieme magari a fare prelievi del sangue, può essere anche praticare l'aborto.
Ma anche ammettendo la liceità, ancora, dell'obiezione di coscienza, perché (sempre quella domandina eh?) circoscriverla solo alla pratica abortiva? perchè non istituire l'obiezione anche, che so, per la trasfusione del sangue?
Io, medico testimone di Geova, sono obiettore per le trasfusioni perché le giudico contrarie al mio codice morale.
Così è per l'aborto, che coinvolge convinzioni e opinioni personali. Certo, nel caso dell'aborto è coinvolta un'altra vita (quest'asserzione è vera, qualunque significato si dia al termine vita e a quella vita messa in gioco): ma ognuno valuta, in relazione alla propria etica, il significato da dare all'altra vita in relazione alla propria, il valore che essa ha in rapporto alle proprie esigenze.
E' geneticamente ed empiricamente errato dire che l'altra vita in gioco, quella del feto, è come noi, perché così evidentemente non è, a meno che non si carichi di valore morale la semplice presenza del genoma umano (cosa peraltro fattibile e rispettabilissima, nel reciproco rispetto ovviamente). E questo è un fatto: non è un caso che il limite all'aborto chirurgico sia fissato entro i tre mesi (la somministrazione della RU186, addirittura, pare debba avvenire entro la settima settimana, al di sotto quindi di quello previsto dalla 194), quando il feto, o embrione che sia, è ancora così lontano da essere una creatura anche solo semplicemente senziente.
Il caricare la vita nascente, così diversa da noi o da un neonato (è evidente, non serve a nulla equiparare il feto di 2 settimane ad un neonato piangente), di un valore quale che sia, ad un livello quale che sia, è frutto di una scelta, che in quanto tale non può essere uguale per tutti. Non è un fatto.
Tornando a bomba, perché solo all'aborto questo privilegio dell'obiezione? Perché non a tutte le altre pratiche mediche? Su questa domanda, ancora, continuo a interrogarmi, trovando solo supposizioni vaghe che mi proiettano in una distopica teocrazia futura.


Concludo questo mio lungo sfogo riportandovi la fine dell'articolo di Ballestra, che sembra aprire una possibilità di respiro, o comunque da' una proposta semplice, intelligente, intuitiva, di possibilità di discutere. La discussione e la riflessione autonoma, forse, son l'arma per far chiarezza in questa strana trama che è la questione dell'aborto (ma non solo... non solo... forse dovrei parlare di questa strana trama che è l'intero tessuto politico-sociale italiano)


"[...] sarebbe bene poterne discutere liberamente. Discutere anche del nodo etico dell' aborto, oggi che si fanno meno figli e l' argomento è diventato più scottante. Col progresso della tecnica (non solo abortiva, ma anche di indagine prenatale), una serie di questioni un tempo impensabili investono la vita delle donne e le loro scelte. Si vorrebbe poterne parlarne senza inciampi patriarcali, vescovili o politici che costringono ad arroccarsi e divenire brutali. Il dolore, la qualità della vita, l' elaborazione del lutto, la responsabilità etica, la procreazione, sembrano oggi argomenti monopolizzati quasi esclusivamente dai proibizionisti. Ben venga il massimalismo auspicato da Veronesi. Intanto, concentriamoci su un minimalismo realizzabile qui e subito."

domenica 30 agosto 2009

Un immigrato che vien dall'Asia: il tofu, straniero tutto da scoprire


La ricetta che lascio stasera riguarda la mia più raffinata perversione, cui son giunta dopo aver intrapreso la mia svolta vegetariana... Trattasi del tofu, alimento il cui solo nome può, per chi non lo conosce, quanto meno far sorgere una certa perplessità.
Che razza di nome è tofu, direte voi, chi l'ha mai sentito, a quale strana genia appartiene? Un po' lo stesso discorso, in fondo, vale per il seitan, la cui stessa articolazione fonica fa sospendere il giudizio, lasciandoci pieni di sospetto e, forse, rischiarati da un sorriso beffardo in ricordo di tutti gli anime giapponesi visti in giovinezza (non potrebbe essere il nome del protagonista di uno di essi?) 
Seitan e tofu, infatti, sono originari della Cina e da lì sono stati importati nel nostro, presunto, civilizzato, mondo occidentale: sono quindi immigrati, anche se ritengo abbiamo ben superato la fase della clandestinità (e quindi sono, anche in Italia, piuttosto al sicuro)
La loro estraneità al "nostro mondo" o, per meglio dire, alle nostre abitudini gastronomiche, però, è vera soltanto in parte: penso che il tofu, come la soia (il tofu deriva dal caglio della soia), sia una importazione relativamente recente in Occidente; ma per il seitan è tutta un'altra storia.  Quella del seitan (ovvero di un concentrato di proteine ottenuto dal frumento) sembra non essere una tradizione alimentare propria solo dei paesi asiatici (questa non è mica una mia opinione, badate: ho letto che è un'opinione sostenuta da molti antropologi): la preparazione di un alimento simile sembra essere stata consueta nel centro e nel nord Italia nel periodo precedente al secondo conflitto mondiale! Come si dice, tutto il mondo è paese.
Ma adesso voglio parlarvi del tofu: questo è un vero immigrato, senza alcuna tradizione o radice culturale o alimentare in Europa o in quello che ci piace definire mondo occidentale. E' ottenuto dal caglio del latte ottenuto dai semi di soia, e la sua pregevole qualità è quella di essere un concentrato proteico: rispetto agli altri legumi, poi, la soia sembra avere un'altra particolarità (oltre all'alta concentrazione di proteine), cioé il fatto di contenere tutti gli amminoacidi essenziali e quindi non c'è nel suo caso la necessità di associarla con altri legumi od alimenti. (questo, mi rendo conto, è un problema che riguarda solo i vegetariani e i vegani, e non tutti quelli che leggeranno lo sono... ma mi sembra opportuno specificare e puntualizzare le scoperte teoriche fatte al riguardo, prima di mostravi la realizzazione pratica)
Il tofu quindi ha tutte queste gran proprietà, ma ha un difetto che lo allontana da molti, sia vegetariani che non: non sa, effettivamente, di niente. Non so se vale lo stesso per il tofu prodotto in Cina, luogo dove fu "scoperto", o in Giappone, dove fu importato piuttosto presto: ma quello che compro qui (lo trovo alla Coop, comunque so che si trova in altri supermercati, oltre che nei negozi biologici speciali) non sa davvero, o quasi, di niente. La prima volta che mia madre lo comprò, me lo son mangiato ingenuamente così, estratto dalla scatola e accompagnato da due verdurine: credetemi quando vi dico che sembrava di mangiare cartone.
Col procedere del tempo le cose sono andate un po' meglio: abbiamo comprato tofu di un'altra marca (più buono) e, con un lento e graduale processo di apprendimento, abbiamo imparato a cucinarlo. E' stata una delle prime volte in cui di necessità mi son dovuta mettere ai fornelli per far sapere di qualcosa ciò che di niente sapeva. 
Il tofu è sì tendenzialmente insapore, ma anche maledettamente e sorprendentemente versatile, al punto che lo si può usare per ogni  piatto: primi, secondi, dolci (oltre che naturalmente contorni), in quanto tende ad assumere il sapore di ciò con cui lo si amalgama, anche se contribuisce a dare una sua pur minima sfumatura di peculiarità che fa sì che lo stesso piatto senza tofu sia decisamente diverso.
Una strategia che ho elaborato (siamo onesti: che ho estrapolato da una ricetta trovata sul web) per farlo insaporire un poco, anche prima di cuocerlo, è di infonderlo per qualche ora (più ci sta, meglio è: assorbe e si amalgama con i sapori) in una miscela di olio, spezie, erbette aromatiche, salsa di soia, aceto, vino, a seconda dei propri gusti...
Già questa marinatura gli da' una certa dignità mangereccia anche da crudo.
Molti vegetariani mantengono una certa diffidenza verso il tofu ma io, forse solo per la mia allucinante capacità di adeguarmi, ho imparato ad amarlo, e lo preferisco al seitan, scoperto successivamente e successivamente valorizzato.
Per questo ho pensato di proporvi qui, come base essenziale, la ricetta del tofu home made: questa ricetta per fare il tofu direttamente in casa (senza comprarlo) mi è costata mesi di ricerche sul web e di aggiustamenti da ricette prese e copiate, permettendomi di giungere a un prodotto di cui posso andare più che fiera. 
Sono debitrice, più che ad altre, alla ricetta della Cuoca Petulante, che ringrazio di cuore per aver contribuito (anche se inconsapevolemente e indirettamente) alla riuscita di questa mia fiera autoproduzione.

Il tofu fatto in casa è diverso da quello che compro: viene più morbido e meno compatto, molto simile a una ricottina. Il procedimento, più che difficile, è molto laborioso, ma permette di ottenere un tofu dal un sapore (ebbene sì, parlo di sapore!) tutto diverso da quello comprato, e del tutto peculiare, oltre che un bellissimo residuo che è l'okara, la parte solida che resta una volta filtrata la soia bollita e ridotta a latte: mi raccomando non buttate l'okara! E' saporitissima (buona buona, forse più del tofu stesso) e può essere usata in mille modi: io l’ho sostituita alla farina di soia mettendone 120 g nella preparazione del pane, l’ho usata come ingrediente per riempire una torta salata e l’ho messa in una zuppa di verdure, ma sicuramente è riciclabile in mille altre modalità... (non faccio il tofu in casa da un po' di tempo e non ho più pensato a come poter usare l'okara d'avanzo)

Lunga premessa eh? 
Ho la maledetta tendenza a parlare (e ancor di più a scrivere) troppo, e spesso ad andare fuori tema o a espandermi troppo... Chiedo venia, adesso vi lascio con questa che inaugura le varie proposte che successivamente farò per rendere gustoso/appetitoso/decente il tofu, ancora straniero alle papille gustative della nostra società)



 Viva il suo ventre
se dunque fu
un ventre-oasi altrettanto
grazioso: ciò che io metto però in dubbio,
- non per nulla vengo dall'Europa
che dubita più di tutte
le mogliettine anziane messe insieme
 (Friedrich Wilhelm Nietzsche: "Così parlò Zarathustra")



Tofu fatto in casa

Prima di partire debbo procedere con un'avvertenza preliminare: perché venga un tofu il minimo decente è importante rispettare con rigore quas stoico le dosi (di acqua, di soia, di caglio etc...): il tofu non viene se si va a occhio.




venerdì 28 agosto 2009

Premio e la meravigliosa scoperta della farifrittata

Con stupore e piacere ho ricevuto l'altro giorno da parte di Fiorix del blog Cuor di Panna il premio di Blog Magico che accolgo e accetto gioiosamente. Ti ringrazio Fiorix di aver reputato me, e questo piccolo blog che nulla pretende, già degni di un premiuzzo! Grazie mille carissima, sei stata davvero gentilissima!










 A questo dovuto, ovvio, gradevole e spero gradito, ringraziamento, allego in coda una ricetta sfiziosa e davvero buona, rubata da vari siti vegani. Per mesi è rimasta semplicemente archiviata come lettera morta tra i miei appunti di ricetta: il primo tentativo di realizzarla è stato verso marzo, anche se il risultato era stato ben poco apprezzabile.  
Mesi dopo l'ho ripresa e, anche grazie ai consigli di mia madre, che di cucina se ne intende più di me, son riuscita a farne venire fuori qualcosa di decente.
Dopo questa premessa piuttosto inutile, forse è il caso che vi sveli l'oggetto tanto misterioso cui vo accennando in queste righe, senza però nominarlo: si tratta della farifrittata. E' una frittata, appunto, che come ingrediente principale non prevede le uova (non a caso, infatti, l'ho trovata nei siti vegani), ma la farina di ceci.
E' il modo vegano per gustare una frittata senza far uso di uova, ed il risultato è davvero notevole. 
Una volta che ho proposto la ricetta in famiglia, c'è stata una iniziale perplessità (tutte le cose nuove e inusuali, che si distaccano da ciò che è abituale o da ciò che decidiamo di catalogare come "normale", si sa, inizialmente creano più che altro diffidenza, se non paura); dopo la realizzazione effettiva della frittata e dopo averla gustata, i pareri sono nettamente cambiati. Adesso è entrata a far parte di uno di quei piatti che frequentemente fanno la loro comparsa sulla nostra tavola, con gran gaudio di tutti. 
Io e mia madre la preferiamo nettamente alla frittata canonica con le uova: è più leggera e lascia meno pesantezza di stomaco, pur essendo, al pari della frittata standard, molto saporita.
Come per la frittata con le uova, ovviamente, la si può insaporire con tutto ciò che si preferisce: ogni tipo di vedura, formaggi etc...
La versione che vi lascio qui prevede l'uso dei fiori di zucchina, spesso visti come "materiale scomodo" che ci si ritrova quando si comprano le zucchine: sono delicati e tendono a marcire o ad andar presto a male, e devono essere usati piuttosto in fretta. Questo è un modo più che goloso per usarli. 
Viene da una ricetta di Vegan Blog l'idea di usare i fiori di zucchina in una farifrittata, oltre che le stesse dosi della pastella di farina di ceci: la prima ricetta che avevo trovato prevedeva altre dosi, ma queste qui si sono rivelate ottime e migliori.


E' terribile
il rumore dell'uovo sodo che si rompe su un banco
              di zinco
                    è terribile quel rumore
quando si agita nella memoria dell'uomo che ha fame

(Jacques Prévert: "Poesie d'amore e libertà")




Farifrittata con fiori di zucchina

 
Ingredienti (per una padella del diametro di 22 cm)

  • un bicchiere di farina di ceci
  • un bicchiere di acqua
  • 3 cucchiai di olio per la pastella
  • olio per soffriggere e per cuocere la farifrittata 
  • sale 
  • fiori di zucchina (io ne ho usati più o meno 160 grammi)
  • uno scalogno (o mezza cipolla) per il soffritto




Procedimento: Preparate la pastella di farina di ceci mescolando insieme la farina, l'acqua, i 3 cucchiai di olio e il sale. Lasciate riposare.
Mentre la pastella sta lì a riposarsi, cuocete e preparate i fiori di zucchina: fate soffriggere in una padella lo scalogno o la cipolla e, mentre soffrigge, lavate e pulite i fiori togliendo loro i pistilli. Poi tagliateli a pezzetti. Mettete i fiori nella padella, copritela e lasciateli cuocere per circa 5 minuti. Toglieteli dal fuoco e mescolateli all'impasto di farina di ceci.
Preparate per la cottura della frittata una padella antiaderente ungendola bene bene, perché la pastella tende ad attaccarsi in maniera impressionante. 
Da questo momento in poi, la cottura è come quella delle frittate standard (notate che prima della farifrittata non avevo mai preparato una frittata quale che sia: non lo dico per esperienza che è la cottura standard ma per insegnamento da chi ne sa più di me)
Scaldate bene sul fuoco: per vedere se è calda abbastanza versate una goccia di pastella nell'olio e vedete se frigge. Se lo fa, allora siamo al punto giusto.
Versate l'impasto nella padella: per un minuto circa cuocete coperto a fuoco medio-alto, poi abbassatelo e procedete la cottura finché si sarà rappreso anche il centro della farifrittata. 
Magari aiutandovi con una spatola vedete se il lato che poggia sulla padella si stacca dalla padella con facilità e senza attaccarsi : in questo caso è cotto e bisogna girare, con l'ausilio del coperchio della padella stessa.
Fate cuocere dall'altro lato per qualche altro minutino, poi togliete dal fuoco e gustatela!
E' buona (anzi, forse migliore) anche tiepida o fredda (si può mangiare anche il giorno dopo)

















Nel voler dare tutte queste spiegazioni, che probabilmente sono inutili per chi ha già dimestichezza in cucina (anche se, ad esempio, non lo sarebbero state per me), noto che ho fatto proprio tardi...
Auguro a tutti una dolce notte, sperando di ritrovarvi presto da queste parti.
Un saluto e un abbraccione

 


martedì 25 agosto 2009

La voluttà e la libidine per un piatto spesso declassato: le mele cotte (golose)

Per una qualche ignota deformazione mentale da qualche anno a questa parte (cioé da quando ho cominciato ad abbandonare i gusti tipicamente infantili per le pure schifezze assumendo progressivamente i gusti e le predilizioni gastronomiche che ancora mi accompagnano) ho sviluppato un amore gustativo particolare per quei piatti che molti categorizzano come "piatti da malati": il riso bianco, il semolino, le mele cotte... Soprattutto le mele cotte! Le adoro. In casa io e mia madre le prepariamo con un pizzico di cannella che da' loro un aroma particolare e sfiziosissimo.
Nelle bigie serate d'autunno e d'inverno, è sempre una festa quando si preparano le mele cotte. 
Ognuno in famiglia ha i propri gusti al riguardo: mia sorella preferisce la mela intera, cotta in forno, con la buccia e tutta crostata di zucchero, io prediligo la mela tagliata a cubetti cotta sul fornello e da mangiare con un cucchiaino o una forchettina in una ciotolina...

Piccole Magie Vegan, il primo blog vegano da cui ho preso ispirazione (poi ne son venuti altri, ma Magie Vegan è stato il primo sito vegan a cui mi sono rifatta assiduamente e affezionatamente) a gennaio ha suggerito una ricetta sfiziosissima che ha come base, e come ingrediente principale tra l'altro, le suddette mele cotte. 
E' un modo golosissimo e delizioso di prepararle, che ritengo possa sedurre anche chi, al termine "mele cotte", storce il naso pensando a condizioni di malattia e disagio fisico-intestinale. Si tratta di un dolce sfiziososissimo e leggero, in cui l'aroma di cioccolato permane sulle papille gustative, e che permette di soddisfare il desiderio di dolcezza con un basso apporto calorico.
Le mele cotte golose sono state la scoperta dell'anno, e un modo fantastico per addolcire un fine pasto o un pomeriggio uggioso.
Riporto questa meravigliosa scoperta sul mio blog, in omaggio a questa delizia e con i più caldi ringraziamenti a Magie Vegan, che è la prima ad avermi (indirettamente, dato che non lo sa) avvicinato al mondo culinario vegano.L'unica sostituzione che ho apportato alla ricetta originale è stata la sostituzione del succo di mela (che non mi piace) con l'acqua e zucchero




Tutti riceviamo un dono.
Poi, non ricordiamo più
né da chi né da dove sia.
Soltanto, ne conserviamo
- pungente e senza condono-
la spina della nostalgia
(Giorgio Caproni: "Res Amissa")




 Mele cotte golose


lunedì 24 agosto 2009

Piacere senza peccato: i ventaglini di pasta sfoglia

Buongiorno a tutti... Intervengo oggi con questa ricettina sfiziosa e semplicissima. In generale non sono per le cose complicate, ma adoro quelle preparazioni che, nella loro semplicità, danno un risultato bello a vedersi, buono a mangiarsi, sfizioso a contemplarsi.... E questi ventaglini, che si trovano spesso belli esposti nelle vetrine dei panettieri o dei pasticceri, sono così. 
Apparentemente sembrano emergere da chissà quale difficile atto creativo, ma sono in realtà davvero facilissimi... l'unica cosa, in teoria, più complessa e laboriosa è la pasta sfoglia, se la si pretende home-made. Io, che non ho di queste pretese, la compro già fatta. E la ricetta è tutta in discesa, d'una semplicità quasi disarmante... E' presente in casa mia da quando ho memoria (infatti mia madre la ebbe dalla madre di una mia compagna di asilo, tanti tanti anni fa...), e la pubblicazione di questo post può essere visto, forse, come un omaggio alle ricette della tradizione della mia famiglia. Oltre che un dolce, cauto, immergersi nei ricordi...

Questi ventaglini hanno sempre accompagnato le feste di compleanno, le serate in compagnia, le calme chiacchierate di fronte a una tazza di tè... Sono degli sbuffi di bontà fenomenali, dei dolcetti intriganti e adatti ad ogni momenti della giornata, friabili e croccanti...


Uno stelo della sfera terrestre,
fragile come luce stellare,
in attesa di essere di nuovo gettato
nel flusso della creazione 
(Edgar Lee Master, "Antologia di Spoon River"



Ventaglini di pasta sfoglia



Ingredienti
  • 1 rotolo di pasta sfoglia già pronta (meglio se di forma rettangolare) 
  • alcuni cucchiai di zucchero. Fino a poco tempo fa ho usato sempre lo zucchero semolato: da poco l'ho sostituito con lo zucchero di canna (vi ho già parlato, vero, della precedenza che gli do?  01[1].gif)


Procedimento: Esso è più difficile a spiegarsi che a farsi e vedersi. Per questo ho deciso di inserire una foto per ogni passo importante, così da render chiaro il procedimeto.
Cominciate stendendo il rotolo di pasta sfoglia su un piano che vi sarete premuniti di infarinare.














Poi cospargete la sfoglia, su ambo i lati, con lo zucchero (di canna o semolato, a seconda di quello scelto ovviamente), aiutandovi con un mattarello perchè lo zucchero aderisca meglio.






























Individuate la metà del rettangolo e, per non perderla ed aver sempre presente dov'è (son rischi che si posson correre...), segnatevela con un coltello.

















Partendo da un lato, arrotolate la sfoglia verso il centro e lì fermatevi.






Fate la stessa cosa partendo dall'altro lato, fino a che i due rotoli non si ricongiungono nella linea centrale.






















A questo punto siete più che a metà dell'opera (anche se siete esattamente a metà della sfoglia 48.gif): da questi due rotoli appaiati tagliate delle fette di circa 1 centimetro di spessore, millimetro più millimetro meno.





























Mettete i ventaglini così ottenuti in una teglia coperta di carta da forno

















e infornate a
forno già caldo a 200 ° C per 15 minuti, o comunque finché non sono dorati (dopo prove e prove, 15 minuti è risultato il tempo ottimale per il MIO forno ma, come sappiamo, ogni forno è una creatura a sé). La fase della cottura è la più delicata, perché bisogna azzeccare il tempo giusto: c'è il rischio che scuriscano troppo o che restino troppo molli, se solo li si tiene un minuto in più o in meno...
















Trasferiteli in un piatto e gustateli belli caldi e croccanti.
Sono buoni anche freddi, si conservano egregiamente per giorni in un contenitore per alimenti...




Mi è stato detto da utenti conosciuti sul web nei vari siti di cucina che in certi luoghi (in certe zone dell'Italia del Sud, mi sembra, ma non vorrei fare una gaffe geografica...) questi si chiamano prussiane. Io li ho sempre chiamati, non so nemmeno perché (probabilmente tradizione familiare anche codesta), ventaglini... In ogni caso, si tratta di una pura differenza di forma: ventaglini o prussiane che siano, rappresentano un delirante attimo di godimento e di piacere, senza peraltro comportante una grossa colpa in termini dietetici perché un ventaglino non rappresenta certo un attentato in termini calorici...
(ma son certo tentatori, perchè uno tira l'altro...)


Un caro abbraccio e un salutone


I gatti: le parole del poeta maledetto per onorare quelle creature che, talvolta, ci scelgono come compagni di viaggio

Da prima di nascere ho vissuto con i gatti: ce n'erano già due o tre in casa quando son venuta al mondo e, da allora, non c'è mai stato un solo istante in cui non ho condiviso la mia esistenza con un micio. Ci sono stati, sempre, come compagni fedeli: ognuno con le proprie manie, le proprie abitudini, i propri difetti, la propria voce... Ognuno con una propria, spiccata, intensa, personalità.
Ho letto, spesso, e spesso presso molti stimati filosofi e accademici, che l'essere umano si caratterizza e si differenzia dagli altri viventi per la presenza dell'individuo, dell'individualità, che è specificamente umana. Io penso che chi lo afferma non ha mai vissuto con un gatto o con un altro non umano: come non notare che ogni singolo è nettamente diverso dagli altri? che ognuno ha i propri pregi e i propri difetti, le proprie peculiarità, le proprie straordinarietà?
La stessa organizzazione sociale degli animali selvaggi (non i gatti ovviamente, che sono solitari: ma pensate, che so, ai lupi, ai leoni, ai delfini, agli scimpanzé) si basa sulla differenziazione individuale dei singoli che, in relazione alle proprie peculiarità, assumono nel gruppo una determinata funzione e ruolo.
Ancora dopo Darwin, ancora dopo tutte le scoperte della genetica, viviamo ancora troppo ancorati al nostro tradizionale antropocentrismo...
Dopo questa lunga, ma spero non prolissa, premessa e discussione, voglio onorare queste magiche, affascinanti, creature che sono i gatti (Felis silvestris catus) con le parole di uno dei poeti che, bene o male, mi è rimasto per sempre nel cuore fin da quando l'ho studiato alle superiori (pur non raggiungendo mai, sia chiaro, la stima e la profonda ammirazione che riservo a Giacomo Leopardi): si tratta della poesia "I gatti" di Charles Baudelaire, contenuta nella raccolta "I fiori del male" del 1857, nella sezione "Spleen e ideale".
Ho creduto per qualche tempo, da adolescente, d'esser poeta, e la poesia è per me il miglior modo per onorare i miei alleati di sempre...

 


I gatti
Gli ardenti innamorati e i dotti austeri
amano entrambi, nell'età matura,
i gatti dolci e possenti, orgoglio della casa,
freddolosi e imboscati come loro.
Amici della scienza e del piacere,
cercano il silenzio e l'orrore del buio,
galoppini ideali dell'Erebo se, fieri
come sono, a servire potessero adattarsi
S'atteggiano, pensosi, nobilmente,
come le grandi sfingi solitarie
immerse, sembra, in sogni senza fine;
fecondi le reni e piene di magiche scintille;
e, come sabbia fine, minime parti d'oro
vagamente costellano le mistiche pupille





Les amoureux fervents et les savants austères
Aiment également, dans leur mûre saison,
Les chats puissants et doux, orgueil de la maison,
Qui comme eux sont frileux et comme eux sédentaires.
Amis de la science et de la volupté
Ils cherchent le silence et l'horreur des ténèbres;
L'Erèbe les eût pris pour ses coursiers funèbres,
S'ils pouvaient au servage incliner leur fierté.
Ils prennent en songeant les nobles attitudes
Des grands sphinx allongés au fond des solitudes,
Qui semblent s'endormir dans un rêve sans fin;
Leurs reins féconds sont pleins d'étincelles magiques,
Et des parcelles d'or, ainsi qu'un sable fin,
Etoilent vaguement leurs prunelles mystiques.




Ed ecco qua, a rappresentazione e a emblema del verbo di Baudelaire, uno dei miei micioni preferiti, il cui semplice nome è concorde con lo spirito del blog: Parmenide. Mi rendo conto che in questa foto non appare esattamente come una "grande sfinge solitaria immersa, sembra, in sogni senza fine"; ma non vi sembra di intravedere minime parti d'oro nelle sue pupille? 




domenica 23 agosto 2009

Ma che abbinamento strano: torta di cioccolato e barbabietole con gocce di cioccolato bianco

"Ma che razza di ingredienti abbina questa qua? Che accidenti c'incastrano le barbabietole con la cioccolata? "
Più o meno lo stesso pensiero mi ha colto quando, mesi fa, ho scorto sul blog di Fiordizucca la ricetta a cui mi sono ampiamente ispirata, che è stato il mio motore d'avvio e a cui quindi mi rifaccio con gratitudine: la sua torta di barbabietole e cacao. Mi han sempre intrigato le associazioni strane (a volte, a dire il vero, con risultati pessimi), e ho voluto provare, con l'aggiunta (su suggerimento di mia madre) di gocce di cioccolato bianco: che fantastico tentativo! Ho fatto bene a fidarmi di Fiordizucca... Ho avuto un dolce gustoso, che non appesantisce, gradevolissimo e reso sofficissimo dalla barbabietola. Il sapore della barbabietola tra l'altro non si avverte minimamente, ammortizzata com'è dal cioccolato fondente e addolcita dalle gocce di cioccolato bianco.
Non credo sia la stagione più adatta per proporvela, col caldo che fa in questi giorni... per me rappresenta più una coperta di calda consolazione nelle giornate uggiose dell'autunno e dell'inverno. La posto ugualmente, magari sperando che qualcuno sia invogliato ad annotarla per poi riproporla quando il clima sarà meno asfissiante...



Torta di cioccolato e barbabietole con gocce di cioccolato bianco
 



Ingredienti
  • 200 g di farina 
  • 300 g di barbabietole (peso da cotte)
  • 70 g di cioccolato fondente
  • 100 g di cioccolato bianco
  • 2 uova
  • 100 g di zucchero di canna (o anche di zucchero semolato, non fa differenza... io tendo a preferire lo zucchero di canna, ma è solo questione di gusti )
  • 125 ml di olio d'oliva
  • 1 bustina di lievito per dolci (2 cucchiai)

Procedimento
Accendete il forno a 180° C. 
Fate cuocere le barbabietole o usate (come ha fatto la sottoscritta, tra l'altro) quelle giá cotte disponibili in molti supermercati. Mettetele in un mixer, riducendole in purea usando anche un po' di acqua di cottura o semplicemente acqua. Uno o due cucchiai sono sufficienti perché le barbabietole si amalgamino bene tra di loro.
Usando una frusta elettrica mescolate le uova con l’olio fino ad ottenere una bella spuma, poi aggiungete lo zucchero e lavorate ancora fino ad ottenere un composto chiaro. Aggiungete la purea di barbabietole, il cioccolato fondente precedentemente fuso a bagnomaria e la farina setacciata assieme al lievito. Amalgamate tutti gli ingredienti con un cucchiaio fino a quando non avrete più grumi.
Per ultimo aggiungete il cioccolato bianco ridotto a scagliette e tenuto in freezer.
Versate il composto in una tortiera a cerniera di circa 20 cm dopo averla oleata ed infarinata leggermente oppure rivestita con carta da forno. 
Fate cuocere per 40 minuti e lasciatela raffreddare nel forno spento con lo sportello socchiuso. 
... slurp!











 







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