"Perché una realtà non ci fu data e non c'è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile"

(Luigi Pirandello)

sabato 26 settembre 2009

L'illiceità del gettarlo via: la prima ricetta di riciclo del pane sotto veste di gnocchi e la raccolta di Lory e Marsettina

C'è un rapporto particolare con la propria creazione... Con ciò che esce dalle proprie mani, o dal proprio ingegno, o dal proprio corpo. C'è un rapporto particolare con qualcosa che, bene o male, senti come tuo, anche se può essere inesatto definirlo come tale: si pensi al legame, forte, tra la madre e i suoi figli... le sue creazioni più profonde, più intime. Io non ho figli e la mia discussione è più che altro è teorica... oltre che confermata dalle numerose circostanze in cui mia madre è stata capace, quasi, di leggermi dentro, di capire qualcosa che non le avevo detto. Sarà stato anche per la intima conoscenza che per forza c'è con una persona con cui hai convissuto per 23 anni... ma io penso sia, anche, per il forte legame che la madre intesse con i figli, creature o creazioni che si vogliano dire.
C'è un legame affettivo con quello che si crea... un legame che va oltre la capacità di comprensione razionale, e che ci lega più alla nostra produzione più che a un altro oggetto di identica natura. E non vale solo per l'esempio, estremo, che ho fatto, dei figli.
E' una considerazione ben più generale: ho un rapporto di tenerezza con le poesie che ho scritto, con i racconti che a volte son riuscita a buttar giù. Un battito di cuore più forte che per qualsiasi altra poesia o qualsiasi altro racconto, pur di maggiore e pregevole stile... Ed è un rapporto che coinvolge anche le creazioni culinarie.
E' meraviglioso vedere come l'unione di ingredienti in sé eterogenei dia un risultato che con questi ingredienti non c'entra niente, o c'entra poco, o comunque è diverso da essi... E sei tu che cucini, e non altri, il principio motore che permette questa meravigliosa trasformazione.
Nego la possibilità di una creatio ex nihilo che a partire dal niente mi dia qualcosa: per questo nego anche la possibilità che il Dio dei cristiani (parlo di lui perché è quello che teoricamente conosco un po' meglio) abbia creato l'universo dal nulla totale. Definire il Nulla andando al di là della definizione di Parmenide (non il mio gatto eh...) come Non Essere, cioè "ciò che non è ed è necessario che non sia" è ben arduo. Mi rendo conto che può esser letto come un limite umano, che mostra anziché negare l'esistenza di un creatore che è capace di creare dal Nulla; ma, nella mia ottica, l'irrapresentabilità e l'inimmaginabilità del Niente non dimostra e non mostra niente, se non l'impossibilità di creare dal Nulla Assoluto.
Tornando a noi e scusandomi per la parentesi non chiesta né richiesta né voluta, nei confronti delle mie creazioni culinarie ho un rapporto particolare, un legame di affettività, un battito del cuore in più, oltre che quasi un senso di orgoglio e di fierezza personale. E per questo, ancora di più, mi piange il cuore quando devo gettare gli avanzi di ciò che è uscito dal mio lavoro di creazione...
Parlo del pane, per inciso.
A volte ne produciamo così tanto che si accumulano pezzi e fette di pane secco e raffermo, che non è più allettante per l'uso "canonico" del pane. Ma gettarlo via!
Come si può? Alla considerazione, più generale, dello spreco di qualcosa che è ancora perfettamente commestibile e buono, di fronte all'estrema povertà di zone del mondo in cui quel pane secco sarebbe comunque un evento paradisiaco, si unisce il legame di unione e di affetto verso la propria creatura.
Ma per fortuna ci sono molti modi di utilizzare il pane secco o raffermo: si pensi alla tradizionale panzanella o alla pappa col pomodoro... In questi mesi ho fatto ricerche sul web, ed ho scoperto altri e numerosi modi, a me sconosciuti, di usare il pane raffermo, che ho accolto con entusiasmo. Alcuni ne posterò nei prossimi giorni.
Quella che vi propongo oggi è una ricetta di gnocchi: si tratta di gnocchi di pane, ma non sono canederli (o Knödel che dir si voglia). Ho preso ispirazione da una ricetta del blog La Cucina di Silvy, ma ho inserito certe variazioni che hanno dato, alla fine, una ricetta e un risultato del tutto diversi. 




Partecipo con questa ricetta alla raccolta di Lory e Marsettina "Riciclo pane raffermo dolce e salato"





Dio ci ama, poiché ci ha creati! -
  "No, l'uomo creò Dio" - dite voi fini.
E non dovrebbe amar ciò che creò?
Deve poiché creò negar che sia?
La cosa è zoppa, come il piede del diavolo.
(Friedrich Wilhelm Nietzsche: "La Gaia Scienza")




Gnocchi di Pane



La filosofia del perenne-sostegno-al-perdente: come dare sapore al tofu vestendolo di zucchina

Non me ne faccio un vanto, perché non credo lo sia; ma è un habitus mentale che istintivamente tendo ad adottare o, per restare nella metafora dell'abito, ad indossare (perdonatemi questo basso umorismo... posso incolpare solo la stanchezza e questa mezza euforia per aver sostenuto, stamane, l'ultimo esame della mia laurea specialistica ) . E' quella tendenziale abitudine a identificarmi con i perdenti, gli esclusi, gli emarginati, o ancor meglio quelli comunemente definiti "sfigati": quelli che nessuno vuole, che nessuno considera... Non mi conoscete, ma penso che con un attimo di sforzo capirete le innumerevoli interpretazioni che possono darsi a quest'atto: una istintiva immedesimazione e identificazione col perdente, perché anch'io mi reputo tale; una ricerca (in)consapevole del perdere per il fatto che non mi mette in difficoltà, che non spicca mai per una sua superiorità; un'istinto di "crocerossina" che perennemente si rinnova... E forse, chissà, quante altre.
Non so bene quale tra queste sia la vera ragione, se ve ne è una sola... e anche di questo, permettetemi di dubitare. Un tale di nome Carlo Emilio Gadda ha sostenuto che un evento non è ascrivibile a una sola causa, ma a una fitta rete di concause, di fattori che hanno contribuito al suo determinarsi: non giungerò mai ai toni quasi apocalittici di Gadda nel suo denunciare l'impossibilità di venirne a capo, il regresso ad infinitum che l'immergersi nel fitto delle concause comporta... ma è anche vero che le cose, nella vita, spesso sono molto più complesse di come le vogliamo far sembrare. E anche in questa mia propensione, probabilmente, si mescolano molte tendenze, molte insicurezze, molti fattori eterogenei; dovrei conoscermi molto di più per arrivare a una individuazioni quasi azzeccata, dovrei scavare in verità o ricordi che possono farmi male, e mostrare una me che non mi piace. Prima o poi lo farò del tutto (giurin giurello, parola di pastorello ), o comunque più di quanto non faccio già ora... Mettersi in discussione è uno sport faticoso. Necessario, sì, ma tremendamente faticoso.
Questa lunga premessa serve a denunciare  come coerente con questa mia propensione la simpatia e il connubio che ho instaurato con l'alimento tofu: il tofu è uno degli alimenti disprezzato, irriso, non riconosciuto ed evitato (non da tutti ovvio... ci sono naturalmente molti altri estimatori e consumatori di tofu, naturalmente...). Riconosco che una ragione c'è, vista la sua natura insapore. Eppure per me il tofu ha rappresentato, forse, al di là di questa mia istintiva simpatia per i non-vincenti, una vera sfida con me stessa e con lui: la sfida di riuscire a dargli sapore, di renderlo gradevole agli occhi e al palato.
E questo suggerimentino, colto sulla confezione del tofu stesso, mi ha dato modo di provare una ricettina molto gustosa, gradevolissima e, per di più, scenografica. Fa una gran figura nel piatto! 
Ho usato così, per la prima volta, in maniera funzionale, quelle zucchine tonde che non sono mai presenti nel frigorifero di casa (appunto perché adatte a ricette scenografiche come quella che vado proponendovi) e che ho dovuto acquistare apposta per questo esperimento culinario... esperimento che, testato solo su me stessa (e quindi su un campione alquanto limitato), ha ricevuto il mio benestare. Non è mai tardi per riuscire a conquistare una propria dignità... e ritengo, anzi sostengo, che questa ricetta dia al tofu una decisa e sentita dignità gastronomica)



[...] e i colpi si ripetono ed i passi,
ed ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L'attesa è lunga, 
il mio sogno di te non è finito
(Eugenio Montale: "La Bufera")



Scrigno di zucchina con cuore di tofu




sabato 12 settembre 2009

Virtù sul vizio del cioccolato: plumcake con cioccolato bianco e pesche

A volte cado preda di curiosità immotivate che sorgono, improvvisamente, nella mia mente malata. Che non hanno motivo di esistere, che fino ad un istante prima non avevo minimamente calcolato. E poi qualcosa scatta, e quel fattore diviene il mio demone personale, che mi tormenta, mi stuzzica, non mi fa che deviare il pensiero verso di lui. E non sempre, anzi quasi mai, badate, si tratta di cose essenziali: dettagli, particolari, attimi, barlumi, soffi... Anche se forse, a volte, l'essenziale è nascosto proprio in ciò che non si mostra vistosamente, nei piccoli, insignificanti, atti quotidiani, nelle invisibili qualità di ogni giorno. Non siamo definiti tanto e solo dai nostri atti grandiosi, sempre che ne compiamo, non solo da ciò che lascerebbe la nostra memoria nella storia; quanti sono i nomi che ricordiamo dai libri di storia, quanti coloro che sono davvero vissuti in una determinata epoca, con i loro guai, le loro idee, i loro problemi, il loro essere?
La storia e la memoria son ben poco democratiche, ci fanno ricordare solo i grandi nomi, non tutta la quotidiana gente, i gesti piccoli, gli sguardi, i dettagli insignificanti ma tremendamente essenziali.
Questa considerazione va però ben oltre la curiosità di cui ho parlato inizialmente: una fissa che mi è presa verso metà luglio riguardo al cioccolato bianco. Io adoro il cioccolato, anche da mangiare semplicemente e naturalmente a morsi: una libidine senza fine, una consolazione, un compenso per tutto ciò che, inevitabilmente, può non andare... Un quadretto è sufficiente: lo gusto lentamente, quasi sensualmente, come qualcosa che non si ripeterà mai. E l'attimo di piacere è quasi assicurato, soprattutto se sto "conversando"  con un buon cioccolato fondente.
Ho tuttavia delle prevenzioni verso il cioccolato bianco, con cui non son capace di conversare in momenti di vero godimento , che non è capace di trasmettermi la stessa inimmaginabile sensazione di esser-oltre. Neppure come ingrediente di un dolce mi piace granché: è troppo stucchevole.
Eppure, a metà luglio volli e assolutamente volli trovare una ricetta che prevedesse l'uso del cioccolato bianco. Curiosità e volontà sorte dal nulla, come un guizzo di luce.
Ovviamente ho fatto affidamento alla fedelissima ragnatela di Internet, approdando a una perfetta applicazione di quel meccanismo che Jacques Monod chiamò il caso e la necessità  : intendendo cioé che il vagabondare totalmente a caso sul web, saltando all'impazzata da un blog all'altro, da un sito all'altro, senza seguire alcun criterio razionale, mi ha fatto reperire quella ricetta che è divenuta con le successive e ripetute realizzazioni (e i successivi e ripetuti apprezzamenti) una necessità che sovente si ripresenta sulla tavola di casa.
C'è un altro "dolce-da-colazione", a dire il vero, che è ancora più necessario e che ha assunto in casa un ruolo rivoluzionario pari a quello del pane senza impasto... ma di lui vi parlerò prossimamente. 
Questa delizia che vi voglio proporre adesso l'ho scovata sul forum di Cookaround e l'ho un po' aggiustata ai gusti familiari (cambiando, a dir la verità, ben poco) e mi ha permesso di rivalutare enormemente il cioccolato bianco: il suo sapore addolcisce senza sgarbo, ma con una sfumatura vellutata, tutto quanto il dolce. Si coniuga perfettamente con le pesche, l'altro ingrediente chiave di questo plumcake che vi vado illustrando.


Sfondata ogni porta,
abbattute le mura,
è il cosiddetto Infinito
la nostra vera clausura? ....
(Giorgio Caproni: "Res Amissa")




Plumcake con cioccolato bianco e pesche



Ingredienti
  • 250 g di farina
  • 2 uova intere
  • 90 g di olio di semi (la ricetta originale prevedeva 125 g di burro: io preferisco usare l'olio, ma la stessa quantità era eccessiva: ho diminuito volta volta trovando la dose giusta in 90 grammi  )
  • 150 g di zucchero (com'è mia abitudine, io uso lo zucchero di canna)
  • 250 g di yogurt bianco (intero o magro, differenza non fa... io ho sempre usato quello che trovo a disposizione in frigorifero)
  • 100 g di cioccolato bianco
  • 2 pesche (più frutta c'è più buono è! L'ultima volta ho usato le mie due pesche canoniche, ma una di esse era di dimensioni veramente poco canoniche... enorme! E il risultato è stato un plumcake più buono del solito... Quindi penso che possiate osare addirittura con 3 pesche, o per restar parchi con 2 e mezzo
  • una bustina di lievito per dolci
  • zucchero di canna per spolverizzare lo stampo da plumcake
  • eventualmente latte (io non ne ho mai avuto bisogno)



Procedimento: Preparate gli ingredienti. Tagliate il cioccolato bianco in pezzi piuttosto piccoli e metteteli, en attendant, in freezer (il cioccolato bianco ha la fastidiosa tendenza, più che gli altri tipi di cioccolato, e forse per il fatto di essere composto prevalentemente di burro di cacao, di squagliarsi tra le mani). Sbucciate le pesche e tagliatele a cubetti.
In quest'ultimo tentativo ho tagliato a spicchi metà di una delle pesche, in modo da adagiarli sulla superficie del plumcake una volta trasferito il composto nello stampo.
Ungete lo stampo da plumcake (io uso l'olio di semi) e, invece di infarinarla, cospargetelo, sia sulla base che ai lati, di zucchero di canna, che darà al dolce, una volta cotto, una crosticina croccante e invitantissima.
(questa preziosa indicazione viene da Anice Stellato, che ringrazio sentitamente per la dolce ispirazione, utilizzata più volte, ovviamente non solo in occasione di questo dolce qua)
A questo punto avete tutto pronto. Cominciate il lavoro!
Anzitutto sbattete in una ciotola lo zucchero con l'olio, fino ad ottenere un composto piuttosto cremoso e sofficioso.
Poi aggiungete le uova e sbattete ancora, a lungo, fino ad avere un composto spumoso e piuttosto sodo... io ho da poco imparato ad usare in queste fasi (fino a che non aggiungo la farina) le fruste che uso di solito per montare le uova, e questo velocizza un po' il percorso. Ma è fattibilissimo anche a mano (io fino a poco tempo fa usavo la forza delle mie braccia, senza affidarmi ad alcun marchingegno tecnologico )
Unite i 250 grammi di yogurt continuando a miscelare, poi aggiungete la farina setacciata ed il lievito. Usando un mestolo di legno (potete usarlo anche prima ovviamente... usando le fruste, io ho qui bisogno di sostituire lo strumento elettrico con il tradizionale mestolo) unitevi il cioccolato bianco estratto dal freezer e le pesche a dadini: tenete ancora quelle a spicchi. Mescolate con il mestolo dal basso verso l'altro, come si fa quando si inserisceono nel composto gli albumi montati a neve (è un suggerimento che ho trovato sul web_ e di cui, ahimé, ho perduto la fonte_ per non far andare tutta la frutta solo da una parte, tutta in fondo o tutta in cima a seconda di come lo si guardi... io seguo il suggerimento anche se non è che i risultati che mi abbia dato siano notevoli...).
Mescolate bene e se il composto risulta troppo sodo aggiungete un po' di latte (premura, questa, che però non ho mai dovuto seguire).
Trasferite il composto in uno stampo da plumcake e adagiate sulla superficie gli spicchi di pesca (quella diverrà la parte superiore del plumcake, ovviamente).
Cospargete la superficie del plumcake di zucchero di canna e infornart in forno preriscaldato a 180° C per 40 minuti.
Lasciate raffreddare, sformate dallo stampo... et voilà! Quale meraviglia per gli occhi e per il palato!

La fettina














Questa dolcezza è ideale per rendere il risveglio quanto meno decente e preparare il corpo e lo spirito alle lunghe e ardue fatiche quotidiane...
 E' una consolazione dolce per ogni cosa, ottima in ogni momento della giornata: un buon dolce da colazione, certo, ma anche un goduriosa e libidinosa merenda, o per un ghiottissimo dopo-pranzo (o dopo-cena).




Ed ecco come il cioccolato bianco trovò il suo riscatto in questa meraviglia... Lasciandovi con una dolce sfumatura striata di aroma pescato, vi auguro la buonanotte nella speranza di leggervi presto
un abbraccio


Giulia




lunedì 7 settembre 2009

Parentesi filosofica: E' possibile un umanesimo ateo?

Il fedele blog Bioetica mi propone sempre temi profondi e interessanti di riflessione... Mi spiace unicamente di non avere il tempo (e spesso, ahimé, nemmeno la voglia) di aggiornarmi su tutto e di riportare i miei "aggiornamenti". 
Se c'è una cosa (almeno una!) che mi ha dato il corso di Laurea che frequento da 4 anni è l'attitudine mentale a sentire il fascino di confrontarsi con realtà diverse, o con situazioni diverse, di guardare da nuovi punti di vista situazioni consuete, di affrontare argomenti mai messi in discussione, analizzarli, vederne le origini, confessarsi i propri errori, le proprie debolezze, il perché del proprio agire. Di qui a cambiare concretamente, ad incidere profondamente sul mio comportamento, come qualcuno che conosco e che forse mi leggerà sa bene , c'è un mare (come si dice? tra il dire e il fare...), ma lo stupore continuo dell'analizzare, dello scavare e dell'analizzarmi è una conquista di cui cerco di andare fiera.
E quest'articolo qua, che stasera voglio proporvi senza tanti fronzoli o commenti (miei), fa pensare. Fa riflettere. Ci fa indugiare sul senso che attribuiamo ai termini, sul modo in cui li usiamo. Spesso usiamo delle espressioni senza soffermarci sul loro significato, senza accorgerci quanto sono impregnate di pregiudizi, o di concezioni passate che le hanno, in un certo senso permeate.
La filosofa (e per lei, al contrario che per me, è un termine che si può usare a ragion veduta!  ) Roberta De Monticelli  ha pubblicato il 22 agosto 2009 un articolo molto interessante su "Repubblica": alla base della sua elaborazione sta un articolo del 14 agosto («Le ragioni di Bendetto XVI su ateismo e nichilismo»), pubblicato sempre su "Repubblica" da Vito Mancuso (teologo ed ex prete).
 L'articolo di Mancuso era dettato a sua volta da un intervento precedente, quello di Adriano Sofri che confutava l'equiparazione fatta dal Papa tra nazismo, nichilismo contemporaneo e umanesimo ateo. Come vedete, ogni opinione nasce da una antica... tranne quella del Papa, ovviamente, che ci delizia sempre con i suoi interventi illuminanti.... e qui taccio per non svelar troppo la mia reale natura anticlericale, perché so che potrei offendere dei lettori, e non è questo quello che voglio, come non voglio inculcare i miei (pre)giudizi contro l'istituzione vaticana...
Mancuso in parte da' ragione al Papa, poiché equipara nichilismo (da lui definito come negazione di un fondamento eterno e razionale della natura e della storia, cioé un punto fermo cui il singolo deve sottomettere il proprio agire e il proprio pensare) ad umanesimo ateo, che in quanto tale nega la presenza di un fondamento eterno e razionale conosciuto dai più col nome di Dio: l'etica nell'ottica di Mancuso (che, però, ricordo, è stato un prete... e quindi, in un certo senso, non può pensarla in altro modo), non può esistere senza un fondamento trascendente, senza il riconoscimento di un valore più grande del singolo tale da permettere all'individuo di superare sé (di trascendersi, quindi) e la sua ottica egocentrica.
Nel suo articolo, «I valori condivisi dell’umanesimo ateo», 22 agosto 2009, pp. 40-41, De Monticelli polemizza (e a ragione, secondo me) con la posizione assunta da Mancuso e, come Mancuso, si chiede: Può un umanesimo ateo non essere nichilista da un putno di vista etico?


I valori condivisi dell'umanesimo ateo

Roberta De Monticelli, "Repubblica", 22 agosto 2009



"Può un umanesimo ateo non essere nichilista da un punto di vista etico?
Il problema, sollevato dal Pontefice, e ripreso con opposte posizioni da Adriano Sofri e Vito Mancuso è cruciale: non solo in metafisica e morale, ma nella coscienza contemporanea e segnatamente in quella italiana nel momento attuale, divisa com’è fra la constatazione che non ci sono limiti all’arbitrio e all’impunità dove il potere non osserva le regole e la speranza di un rinnovamento morale e civile: che passerà però in primo luogo nella mente e nel cuore degli individui o non verrà mai più. Per questo mi permetto di esporre le ragioni per cui credo si debba dissentire questa volta dalla tesi di Vito Mancuso, il teologo che di questa speranza di rinnovamento è oggi parte viva e grande.
La questione è cruciale perché porsela equivale a chiedersi se un’etica laica sia o non sia possibile. Definisco i termini. Per etica intendo la consapevolezza di ciò che è dovuto da ciascuno a tutti, in ciascuna data circostanza. Per etica laica intendo l’etica in quanto vale indipendentemente dall’ipotesi che un Dio ci sia, e in quanto è accessibile e praticabile indipendentemente da ogni credenza relativa a Dio. La tesi fondamentale di un’etica laica dice dunque che la consapevolezza del mio dovere in ogni circostanza data è accessibile (con la stessa fatica, tormento o certezza) a chiunque, credente, diversamente credente, indifferente, non indifferente o ateo. Mancuso ritiene che questa tesi sia
falsa - che cioè l’indubbia esistenza di atei di altissima sensibilità morale (o viceversa di uomini di religione che ne sono privi) dimostra soltanto che quei supposti atei tali non sono (e sbagliano a credersi tali), e quei supposti religiosi neppure. Questa volta a me pare che si debba dissentire da Mancuso, e dalla quasi totalità dei filosofi continentali, che lo seguirebbero senza esitazione nella critica dell”antropocentrismo” umanesimo moderno.
La tesi che l’ateismo è infine nichilismo morale non solo è, io credo, falsa, ma è anche una ferita profonda inferta a tutti gli uomini di buona volontà che hanno dedicato la vita intera alla ricerca del vero - nelle scienze o nelle cose umane – e non hanno trovato nulla degno del nome di Dio.
Vito,
non puoi esigere che chiamiamo Dio la dimensione “spirituale” della vita, l’amore o la relazione ordinata da cui veniamo
. Nulla è più segreto, gratuito e geloso del nome di Dio sulle labbra di un uomo, nulla è più sacro della libertà di rifiutare al bene della vita questo nome, così come di pronunciarlo. L’assoluto rispetto intellettuale, oltre che morale, della libertà di fede è dovuto a ciascuno. Questa è, io credo, una proposizione dell’etica. E dico libertà di fede includendovi l’ateismo, dato che per le posizioni metafisiche ultime (se cioè il mondo naturale necessiti di un fondamento ulteriore a se stesso, o no) non esiste dimostrazione. Ed ecco l’argomento a difesa della tesi che l’umanesimo ateo non implica necessariamente il nichilismo morale. Risale a Platone, a quel suo dialogo che libera l’etica dalla religione. Sostenere che ateismo implica nichilismo è sostenere che se Dio non c’è tutto è permesso. Ma questa tesi è vera solo se, nel dilemma di Eutifrone, è vero uno dei due corni dell’alternativa: il bene è bene perché Dio lo vuole. Solo in questo caso, evidentemente, se Dio non c’è, “tutto è permesso”. Non c’è una differenza fra il bene e il male. Allora, “bene” è ciò che di volta in volta gli uomini decidono che sia - e chi ha il potere lo decide per gli altri, e a chi vi si oppone non resta che appellarsi a se stesso. Questo è il volontarismo, la tesi cioè che non c’è verità e falsità nelle questioni di valore, ma solo le volontà (e il loro conflitto). Ma naturalmente può invece essere vera la tesi alternativa del dilemma: che, semmai, Dio vuole il bene perché è bene. In questo caso, anche se Dio non c’è, il bene resta bene, il male male.
E nelle cose umane stesse che ci sono qualità positive e negative. Ripagare con cariche pubbliche favori privati è male. Ogni forma di mafiosità dei comportamenti è un male. Ogni volta che ce ne sdegniamo, facciamo esperienza del bene e del male. Certo, un’interpretazione dell’umanesimo ateo che implica il nichilismo c’è, ed è precisamente quella volontaristica. Fu quella, ad esempio, di Sartre - ed è oggi la tragedia di quella cultura anche progressista e liberale che non riesce a liberarsi dal relativismo valoriale. Addio alla verità è il titolo dell’ultimo libro di un influente filosofo postmoderno e mi pare si commenti da se. Ma dovremmo forse decretare che non può esistere un ateismo compatibile con l’etica?
Questo sarebbe confondere l’ethos - che è lo stile di vita e la scala di valori, la vocazione e la fede, l’identità personale o morale di ciascuno - con l’etica, che è il dovuto da ciascuno a tutti. E il primo dovere etico qual è, se non quello di accordare all’ethos del mio simile ateo, purché si dimostri compatibile con l’etica, lo stesso rispetto che esigo per il mio? Non è questa una versione della regola aurea? In conclusione. O è solo una questione di parole, e basta chiamare “Dio” una relazione fra persone – ma allora il povero ateo moralmente cristallino dubiterà se deve considerarsi soltanto incoerente o anche sciocco, visto che non si era accorto che il divino fosse “tutto lì”; oppure, come io credo, non è affatto una questione di parole, perché ad essere in questione è la libertà e la gratuità (o la grazia) dell’atto con cui l’uomo di fede dona il suo assenso e la sua vita a ciò che nè la scienza chiede né l’etica comanda.
In questione è la liberta con cui il perplesso sospende questo assenso, e l’ateo lo rifiuta: la sacrosanta libertà di ciò che ognuno è o divieneoltre e al di là di ciò che deve agli altri
L’etica viene prima: perché di questo è condizione. Di questa libertà di fronte alle cose ultime, nella quale sta in definiva tutta la profondità e la serietà della nostra breve vita. Una società civile e giusta non è che la condizione perché questo umano lusso sia reso accessibile a ciascuno. Ma come costruirla se si mette l’etica dopo la fede, e quindi a questa liberta di ognuno, per cui l’etica è fatta, si tronca una delle vie possibili, senza la quale anche le altre perdono il loro senso?"


Dopo questa totalità di sapienza, di buon senso, di eloquenza, di citazioni (anch'io avevo pensato a Sartre, ma De Monticelli mi ha preceduta), l'unico dettaglio che, forse, posso aggiungere, è quello riguardante le radici biologico-evolutive dell'etica umana e la presenza negli animali superiori di componenti della moralità umana: tesi già sostenuta a suo tempo da Charles Darwin, che legava la socialità e gli istinti sociali allo sviluppo del senso morale negli animali umani. E questo slega decisamente l'etica (anche se non l'ethos di cui parla De Monticelli) da una considerazione di tipo trascendentale-spirituale.

Il mio intervento darwiniano-etologico chiude questa parentesi, che più che enunciare le mie opinioni (che presumo tuttavia trapelino con insistenza ), vuol forse porre, e porvi, se avete voglia di fermarvici a pensare, la stessa domanda che ha fatto nascere la discussione (di e tra Sofri, Mancuso, De Monticelli): è possibile un'umanesimo ateo?


Augurando a tutti una dolce notte, 
un saluto grande e un abbraccio





Giulia




venerdì 4 settembre 2009

L'agghiacciante urlo della ricotta in frigorifero e la raccolta di Stefania di "Buoni e Veloci": panini di ricotta con l'opzione zafferano

Nella nostra società opulenta, benestante, presunta civilizzata ed evoluta, abbiamo perso spesso il valore delle cose. 
Sia chiaro, non voglio fare un discorso nostalgico o pseudo-religioso alla stregua di quelli del Papa e dei suoi compagni di merende che denunciano il pericoloso relativismo dei valori di questo mondo laico o laicista. Non penso che i vecchi sani valori ortodossi e dogmatici fossero tanto più sani, e forse una delle poche cose che apprezzo di questa società contemporanea è appunto il relativismo dei valori, nel senso della presa consapevolezza che esistono diverse concezioni del mondo, della vita, delle priorità, le quali potrebbero o dovrebbero coesistere relativamente in pace, nel reciproco rispetto. Questa mia utopia è lungi dal potersi realizzare, ma indubbiamente oggi c'è molta più consapevolezza del vasto panorama di concezioni valoriali che esistono, senza che si possa affermare il valore assoluto e vincolante di uno di essi.
Il discorso da cui son partita è riferito alla tendenza, tipica della nostra società "capitalista", o ancor meglio "consumista" che, in quanto tale, è fondata quasi esclusivamente sul consumo incessante di merce. Non voglio atteggiarmi a vetero-marxista (non son nemmeno neo-marxista se è per questo ), ma il fatto che la nostra economia è basata sull'incessante consumo di prodotti credo sia un dato innegabile. E la necessità di consumare incessantemente, una volta che si è nelle condizioni materiali (ovverosia economiche) di farlo, pare essere divenuto un habitus mentale incrollabile: consumare senza fiato, e quindi sprecare...
Spesso temo di cascarci anch'io. Sono figlia, alla resa dei conti, di questa società.
Ma di solito, quasi istintivamente, odio sprecare, odio gettare, odio sostituire il vecchio (anche perché tendo ad affezionarmici, per una irrazionale proiezione di emozioni animali su oggetti inanimati ). E lo stesso vale per il cibo.
Non so se faccio inconsci collegamenti a quei famosi "bambini del Terzo Mondo che muoiono di fame" con cui mi hanno tormentato da piccola (in famiglia veramente questa entità trascendentale dei bambini denutriti non è mai emersa come icona per spingermi a mangiare, ma fuori casa li sentivo spesso usare come minaccia), oppure se è per una vaga coscienza di quanto sono fortunata ad avere così tanto cibo da poterne buttare... Ma l'idea di gettare il cibo mi crea una certa ripulsa. Tanto più se è integro e solo un po', quasi, vecchiotto: come il pane secco, ad esempio.... o quella povera ricottina che da una settimanetta giaceva nel frigorifero gridando pietà e urgenza di venir utilizzata prima che i processi fisiologico-chimici la conducessero alla decomposizione.
Mi sono ricordata, allora, di una ricetta scovata tempo fa, da me o da mia madre, sul sito Ricette dal Mondo, che prevede l'uso della ricotta: un grido di giubilo per la ricotta che giaceva in frigo e che nessuno aveva voglia di gustare spalmata su una bella fetta di pane (nemmeno la sottoscritta, evidentemente). 
Ma comunque il pane fu coinvolto. Si tratta infatti di panini, personalizzati dall'uso della ricotta (che li rende morbidi e gustosissimi) e, se piace, dallo zafferano.
Rispetto alla ricetta originale, ho dimezzato le dosi di tutti gli ingredienti così da ottenere non 12, ma 6 panini. (il nostro fornetto è troppo piccolo e 12 panini non sarebbero entrati se non in 2 mandate successive... ) Inoltre ho ulteriormente dimezzato la quantità di zucchero prevista, perché la quantità originale restituiva dei panini troppo dolci. 
Con questo nuovo aggiustamento vengono dei panini in cui la componente di dolce si avverte appena appena e che sono adatti per ogni momento della giornata! Un ennesimo tocco di forza, poi, viene dall'uso dello zafferano (che ho lasciato nella dose originale di una bustina), che da' ai panini un carinissimo colore giallino oltre che un tocco ulteriore di sapore che vince quel residuo di dolce. Se non piace, si può fare anche la versione bianca, omettendo di aggiungere lo zafferano.
Sono semplicissimi e veloci da preparare... L'unico "inconveniente" è la necessità di impastarli sulla spianatoia per dieci minuti/un quarto d'ora: ma, se volete, non è che un modo ulteriore per esercitare i bicipiti! Altro che sedute di palestra, ci si mette a impastare i panini alla ricotta! 


Con questa ricetta partecipo alla raccolta di Stefania, del blog Buoni e Veloci, Il formaggio dall'antipasto al dolce.   





Essa vuole soltanto 
differire
e differire non è indifferenza
(Eugenio Montale: "Diario del '72")





Panini di Ricotta 


 


mercoledì 2 settembre 2009

La rivoluzione comincia sempre dalle basi: il pane fatto in casa

Chiamasi rivoluzione qualsiasi mutamento improvviso e profondo che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo modello (definizione perfetta che ho trovato su quell'ambiguo canale di informazione che è Wikipedia). E' ovvio che ogni rivoluzione così definita (e come altro definirla d'altronde?  ) è determinata da una serie complessa e articolata di cause che la determinano; è semplicistico, credo, voler ridurre l'avvenire di un mutamento epocale, che sia sociale, politico, culturale, ideologico che sia, ad un solo evento che possa averlo generato.
E fin qui restiamo ben bene in una quasi noiosa  discussione scolastica, che non credo nessuno di voi abbia voglia di ascoltare. Era però una necessaria premessa per quello che adesso andrò a dire.
Non so se avete notato la mia quasi ossessiva tendenza a cercare di ricostruire la genealogia di certe mie propensioni o atteggiamenti, di ritrovarne l'origine e il punto primo (chissà, forse una sotterranea influenza di Nietzsche ): ho identificato nella mia scelta vegetariana quell'evento che mi ha volto verso la cucina, che poi ha finito per diventare un autentico interesse. Questo è vero.
Ma c'è un altro fatto, importante, che ha determinato un cambiamento a 360°, e non solo per me ma per l'intera famiglia: è un evento che ci ha un po' più educato anche all'autonomia culinaria. E' stato grazie a quell'evento che è stato possibile per tutti un totale cambio di prospettiva, una vera e propria rivoluzione nel nostro modo di guardare alla cucina. Un cambiamento così totale che mi sembra un'altra vita, se guardo indietro...
E questo evento, che ha contribuito grandemente a una grande rivoluzione non solo nel modo di cucinare ma anche nella stessa struttura mentale di chi cucina, è l'intuizione di poter fare direttamente in casa l'alimento più basilare del mondo: parlo del pane
Tutto ebbe inizio da un suggerimento che ci venne dal telegiornale, nei periodi in cui il prezzo del pane aumentò in maniera esponenziale: un servizio denunciava la tendenza di molte persone, per ovviare all'aumento del prezzo, di cucinare il pane in casa.
E quella fu l'illuminazione! 
 
E l'inizio di un cambiamento totale. 
C'è stata ovviamente un'evoluzione nel modo di fare il pane, e un sempre maggiore raffinamento nella produzione stessa.
Un ulteriore suggerimento, colto da mia madre sul web, ci ha permesso di arrivare a questo risultato che, per me, è definitivo. Abbiamo scovato anche variazioni e panini interessanti e che a volte facciamo, ma il pane quotidiano è diventato questo.
Mi rifiuto, ormai, di mangiare in casa mia un pane che non sia stato fatto da noi. (fuori di casa mia, ovviamente, non ho l'arroganza di farlo, e non ci ho mai pensato... ma mi lascia ormai l'amaro in bocca pensare a comprare per l'uso quotidiano in casa il pane). 
Il pane che otteniamo non prevede l'uso dell'impastatrice o della Macchina del pane(non abbiamo né l'una né l'altra) e può essere personalizzato a piacere: è obbligatorio l'uso della farina Manitoba, che permette di far venire nella mollica le "bolle" che danno al pane un aspetto reale, quasi irriconoscibile da quello comprato dal fornaio; ma per la quantità di farina restante, potete aggiungere ciò che volete: semplicemente della farina 00 per ottenere buon pane bianco, farina integrale, farina di farro, farina di grano saraceno (che però non ha glutine ed è davvero pesante, e non fa lievitare molto il pane... ma il sapore è buono buono).
Un totale ringraziamento va a Mary08 del Ricettario di Bianca, dal momento che la ricetta del pane semplice è sua. 
E adesso, cari miei.... panifichiamo!




Questa cosa sempre nuova
Che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda viva come l'estate
(Jacques Prévert: "Poesie d'amore e libertà")





Pane senza impasto a lunga lievitazione




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