"Perché una realtà non ci fu data e non c'è; ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere; e non sarà mai una per sempre, ma di continuo e infinitamente mutabile"

(Luigi Pirandello)

mercoledì 29 dicembre 2010

L'anno che finisce e la necessità di bilancio in un vortice di dinamismo, con la chiusura finale dei miei gnocchi di zucca.

Dicembre è passato quasi senza che me accorgessi. E' passato Natale, con tutto il suo carico di retorica, di ricordi, di auguri, di regali, di ipocrisie, che quest'anno sono stati a dire il vero pochi (gli auguri, i regali, le ipocrisie)... sarà per un mio calo di popolarità o per il fatto che quest'anno son stata davvero poco ricettiva al riguardo. In generale Natale è una festività che mi tocca poco e che uso forse più che altro come pretesto giustificato per ricordare, attraverso i miei auguri, della mia propria esistenza o dell'importanza che gli altri rivestono, spesso senza saperlo, nella mia vita; ma quest'anno l'ho sentito, se possibile, ancora meno del solito, niente di più che un giorno da passare faticosamente in famiglia e per sperare in un qualche guadagno (ovviamente morale, ma anche e soprattuttomonetario ).
Forse è perché sono cambiate così tante cose, a partire da inizio dicembre, che la festività natalizia, per me quasi moralmente neutra, è passata di necessità decisamente in secondo piano: l'inizio del Master Universitario, il trasferimento nell'appartamento di Pisa che ha significato forzatamente il cambiamento dei miei ritmi/abitudini/usanze, una serie di altri mutamenti della mia situazione, elementi che tutti coniugati hanno voluto dire il conseguimento di una quasi serenità (l'assenza di un lavoro che mi dia veramente di che sussistere non mi consente l'eliminazione di quel noioso "quasi" ). Ho avuto la testa decisamente da altre parti per poter ricordarmi davvero del Natale e di tutti i riti che esso prevede. 
Ma voglio festeggiare anche qui, sul mio blog - la mia nicchia ecologica, la mia culla, la mia fierezza, la mia consolazione - l'anno che sta finendo, che quasi è già finito. Credo di aver già detto (su certe questioni temo di essere maledettamente monotona ) che la fine di un'epoca, di un periodo, di un percorso, porta quasi spontaneamente a tracciare un bilancio: e la fine di un anno è senza dubbio la fine di un'epoca. Più ci si avvicina a venerdì 31 dicembre 2010 meno posso evitare, quindi, la propensione a bollare, etichettare, sondare, l'anno che è appena trascorso (oltre ovviamente a sperare nell'anno a venire).
Il 2010 è stato, per me, un anno dinamico. Se devo pensarci, e ripensarlo, è questo il primo termine che mi colpisce il cuore: del 2010, con tutte le sue vette di rimpianti, rimorsi, pentimenti e delusioni (che non possono non esserci, che ci sono state), ricordo con piacere il dinamismo che l'ha caratterizzato. Nel 2010 mi sono laureata, concludendo così un tracciato di studi che ha orientato per forza di cose la mia vita; nel 2010 ho affrontato la prima esperienza che mi ha messo davvero, e praticamente, alla prova, cioè l'esperienza in Turchia; nel 2010 ho cambiato in maniera vorticosa, impressionante, idea e prospettive su di me e sul modo di affrontare e di guardare la mia vita; nel 2010 ho conosciuto così tante persone in modi che prima non credevo neppure possibili per me, e al di fuori del mio solito contesto casa-facoltà di filosofia-caffé letterario; nel 2010 ho avuto la possibilità di conoscere contesti, situazioni, personaggi, fuori dal mio ordinario (e non parlo solo del ventaglio di prospettive spalancatemi dall'esperienza turca); nel 2010 ho capito così tante cose su di me, ne ho preso così dannatamente coscienza, e ho per la prima volta cercato (in qualche modo, probabilmente sbagliato) di affrontare la me stessa che non mi piace, che posso forse ardire ad affermare che, forse, finalmente, il 2010 ha voluto dire davvero l'inizio di una mia reale crescita emotiva e intellettuale.
Ci sono stati periodi morti, di inattività non forzata, di voglia di annullarsi. Ma non posso non pensare al 2010 se non in relazione al brivido di cambiamento che l'ha attraversato (cambiamenti non sempre e non solo dovuti ad una mia scelta, ma che spesso sono semplicemente "capitati", per una serie di casuali coincidenze o semplicemente perché lo scorrere del tempo ha voluto così).
Uscendo al di fuori della mia piccola, angusta, ottica personale e individuale, non so se lo stesso dinamismo ha caratterizzato la situazione italiana, di cui ho spesso la sgradevole impressione che tendano a ripetersi gli stessi, angosciosi, stantii, schemi di potere e sopraffazione. Forse per l'Italia nel suo complesso non è stato un anno così dinamico, così particolare, così - alla resa dei conti - non negativo.
Per consolarmi (e consolare anche voi ) di questa stantia situazione nazionale e per augurare a tutti voi che vorrete fermarvi a dare un'occhiata a questo (per una volta breve) post, propongo stasera l'ultima speciale scoperta gastronomica dovuta alla necessità di smaltire una zucca che da troppo tempo vegetava in frigorifero. Adoro la zucca - si presta a così tante declinazioni e variazioni, sia dolci che salate, ed è speciale per la sua meravigliosa duttilità; volevo fare con questa qualcosa di particolare, che confortasse non solo le mie papille ma anche il mio sguardo e la mia narcisistica soddisfazione di ragazza che tenta (con successi altalenanti) di fare la "cuoca". Cercando e sbirciando tra ricette annotate, libri (in realtà ne ho guardato solo uno, che parla specificatamente delle ricette con la zucca ), blog e siti Internet, sono stata attirata come calamita dalla ricetta degli gnocchi di Artemisia Comina di AAA ACCADEMIA AFFAMATI AFFANNATI. Mi è sembrata una ricetta davvero particolare: gli gnocchi hanno come unici ingredienti il purea di zucca e la farina e la salsa di condimento è sfiziosa e intrigante per l'uso combinato dei semi di papavero e della buccia di arancia. I cambiamenti da me apportati alla ricetta originale sono più che altro dovuti a ciò che avevo a disposizione: il pangrattato al posto del parmigiano (non ne avevo, di parmigiano, in casa) e un grasso da spalmare vegetale (ma non la margarina) al posto del burro (perché avrei dovuto aprire il panetto di burro e in frigorifero avevo già aperta la confezione di grasso spalmabile Vallé - chiedo venia per la pubblicità occulta ma non so come altro far capire il tipo di alimento che ho usato - della mia coinquilina, che mi aveva già dato il permesso di usufruirne).
Preparare questi gnocchi mi ha dato un'enorme soddisfazione: avete mai provato la gioia, l'ansia creatrice di vedere i vostri piccoli gnocchi salire uno a uno in superficie pronti per essere scolati e mangiati? 




Bravo. Sei stato lirico.
Lirico fino all'orgasmo.
Ora va' a letto. Dormi
beato, nel tuo entusiasmo.

(Giorgio Caproni: "Altro inserto")



Gnocchi di zucca aromatizzati alla salvia con arancia e semi di papavero









lunedì 13 dicembre 2010

Non opposti ma differenze... il valore del contrasto, differenziazione, individualità per una crostata cromaticamente duale, con crema di zucca e frolla al cacao

Eraclito, Pitagora, Hegel... quando penso agli opposti, ai contrari, alla contradditorietà, una specie di deformazione professionale mi fa risuonare nella mente i nomi di questi pensatori, forse i più famosi, o i più banali, che hanno fatto dell'opposizione il centro focale del loro pensiero, che l'hanno resa come la principale costituente della realtà. Ma è sufficiente guardare più vicino - in termini sia temporali che culturali - in noi stessi, nella nostra attuale e contemporanea società, perché risulti evidente che siamo soliti, tutti noi, ragionare tendenzialmente per coppie di opposti. Il bene e il male, il bianco e il nero, il chiaro e lo scuro, l'alto e il basso, il bello e il brutto. Non è vero forse che spesso è questa la prospettiva, da cui guardiamo il mondo, da cui lo interpretiamo?
A volte mi fa pensare l'idea che forse tutte queste costruzioni concettuali di contrari, di opposti, di contradditori, non siano altro che artifici... costruzioni, appunto, fatte da noi per farci quadrare la realtà, per inserirla in uno schema che ci sia in qualche modo capibile. E' comprensibile, forse naturale, perché la realtà è realmente così difficile, così complessa, che volerla cogliere in tutta la sua interezza condurrebbe alla pazzia.
L'abbiamo sempre fatto... semplificare la realtà per spiegarcela, intendo. Credo che la piena comprensione di ciò che ci circonda sia decisamente ben al di là delle nostre effettive capacità e possibilità di comprensione. Abbiamo sempre cercato di imprigionarla in schemi concettuali, in griglie che ce la facessero "vedere" con una maggiore chiarezza... è logica la cosa, è naturale, per la (unicamente? ) umana volontà di comprendere il mondo in cui bene o male ci si ritrova a vivere: come si può comprendere qualcosa che si articola secondo un'infinità di modi, di dimensioni, di sotto-realtà, di cose intoccabili e per questo incomprensibili? A volte ho la spiacevole impressione che non ne abbiamo capito quasi nulla, del mondo in cui viviamo; che le credenze cui aderiamo, che scegliamo di accettare, non siano che finzioni con cui ci spieghiamo a nostro modo una realtà in sé incomprensibile appieno... che quindi quello che vediamo non sia che una specie di nostra "invenzione" collettiva. Ed è vero, senza dubbio, che percepiamo gli elementi che ci circondano in relazione alla nostra educazione, alle nostre credenze, alle nostre convinzioni.
Scovare nella realtà quelle caratteristiche che definiamo "opposte" ci serve forse per orientarci meglio nel reale, più di quanto ci serva pensare ad un insieme indefinito, confuso, mescolato, di caratteristiche, proprietà, aspetti, suoni, colori, sapori, luci, percezioni, distinti. L'ultimo anno del liceo ricordo di aver "scoperto" l'ineffabile complessità del reale... una complessità che mi ossessionò al punto da vederla spiacevole, sconcertante, ma nello stesso tempo meravigliosa, esilarante, irrinunciabile... una sorta di "sublime", se vogliamo esser colti, seri, letterati e fare citazioni del pensiero altrui. Anche se penso sia stato quasi solo un vezzo intellettuale, il mio, quello di richiamarmi sempre alla estrema irrapresentabilità del reale e alla sua complessità, alla pluralità di prospettive che, pur apparentemente contraddittorie (opposte, appunto ), coesistono insieme, al punto che è impossibile dire quale sia quella giusta e quale quella sbagliata, sempre che abbia senso parlare di "giusto" e "sbagliato".
Adesso che di anni, bene o male, ne sono passati, è passata anche quest'ansia intellettualoide dei miei 19 anni... nonostante sia rimasta, anzi sia più consapevole, la coscienza della pluralità di prospettive da cui si guarda la realtà, la molteplicità dei suoi modi di essere. E all'interno di queste, non vedo pertanto coppie di opposti... bé, sì, mi viene quasi spontaneo opporre il bello al brutto, il caldo al freddo, il buono al cattivo etc... e forse tendo anche a dare un valore morale o moraleggiante ad ogni coppia di opposti ("buono" e "cattivo", naturalmente, sono in sé morali, senza che sentano il bisogno di lasciarsi attribuire da me un valore morale). Ma a pensarci bene è più "verosimile", nella mia percezione, parlare non tanto di opposti ma di diversità, di differenze, articolate secondo modalità e gradazioni diverse.
Se anche esistono due estremi di cui si può predicare la totale opposizione (ma esistono davvero?), tra di essi c'è una serie infinita di gradi e gradazioni, di caratteristiche diverse anche in maniera infinitesimale. Ed è questa scala di differenze che rende la realtà così straordinariamente eccitante.
Prendiamo soltanto la realtà umana. E' geneticamente, biologicamente, provato che ogni individuo è - per forza o per amore - diverso da ogni altro... forse è diverso per i gemelli omozigoti, ma non ne sono così sicura. La totalità dell'umanità è bella (in senso strettamente morale)  in virtù della varietà, della diversità che ci caratterizza, ognuno con un se stesso diverso da quello degli altri in termini di carattere, di inclinazioni, di potenzialità, di possibilità, di circostanze che ne modulano e ne influenzano l'agire. Una società di uguali può esistere solo nei termini di una società che dia ad ogni persona le stesse possibilità di crescita, di sviluppo, di realizzazione; sarebbe ingiusto voler creare una società di uguali nel senso stretto del termine. Una società di fotocopie, di individui tutti identici gli uni agli altri nelle aspirazioni, nelle volontà, persino nell'aspetto... forse i totalitarismi - o qualche totalitarismo - ha tentato di uniformare gli individui a una sola massa. E forse anche la società di oggi, così "totalitaristicamente" consumistica, sta cercando di appiattirci su uno standard di media mediocrità, di gusti simili se non uguali, di modelli simili, in un luogo dove non ci sono punte di "originalità", di differenze, di distinzione.
Ma penso di poter affermare, con un certo orgoglio, che non è possibile soffocare del tutto le diversità individuali, ottenere pienamente "una specie di massa senza più l'individuo". Questo discorso vale, a pensarci bene, anche per molti animali non umani: chi ha un cane o un gatto - o ancor meglio più d'uno - non potrà negare come ognuno abbia una propria personalità, dei propri gusti, abilità, capacità, repulsioni, paure. E' la differenza individuale a rendere così emozionante il contatto con l'altro (umano od animale che sia).
Ed è la stessa differenza, anche se cromatica stavolta, a rendere così speciale la crostata che vi presento oggi: ho preso ispirazione dalla crostata speziata di Petra di Vegan Blog in occasione della festività di Halloween, in cui trionfavano tronfiamente ricette con la zucca fatta in ogni salsa, mi ha incantato per l'evidente differenziazione cromatica tra la crema di zucca e la frolla al cacao. Non appena uscita dal forno, prima ancora di assaggiarla, ho lodato il successo estetico di una crostata che si è rivelata ottima anche nel gusto . Meno belli sono i riccioli di cioccolato (per la tecnica rimando alla ricetta della Crostata Rimbaud), in teoria decorativi... ma per questo devo ancora affinare la tecnica, verrà un giorno in cui sarò mastra e maestra nel produrre decorativi ed esteticamente impeccabili riccioli di cioccolato


Non mi piace il mercato globale
che è il paradiso di ogni multinazionale
E un domani state pur tranquilli
ci saranno sempre più poveri e più ricchi
ma tutti più imbecilli
E immagino un futuro 
senza alcun rimedio
Una specie di massa
senza più individuo
(Giorgio Gaber: "La razza in estinzione")




Crostata cromaticamente contrastata con crema di zucca e frolla al cacao





venerdì 26 novembre 2010

La violenza contro le donne in una miriade di prospettive nella Giornata internazionale contro la violenza commessa contro le donne. E un labile confine tra piacere e dolore nella mia 'crostata decadente'


Il 25 novembre 1960 Aida Patria Mercedes, Maria Argentina Minerva, Antonia Maria Teresa Mirabal - militanti politiche della Repubblica Dominicana in lotta contro la dittatura di Rafael Trujillo (dittatura di cui si sa ben poco, di cui comunque è passato ben poco nelle nostre coscienze) con il nome di battaglia Las Mariposas -  furono catturate in un'imboscata fatta da agenti del servizio militare, torturate e uccise. Una tragedia in cui si mescolano un'evidente prospettiva politica e una (meno evidente?) prospettiva "sessista" (non mi viene in mente altro termine per descriverla)... o forse è più evidente ancora della prospettiva politica, quest'ultima sul sesso? Non ricorda una delle innumerevoli storie sentite riguardo a ragazze o donne aggredite, malmenate, stuprate, torturate, uccise, quale che ne sia il motivo che spinge a questi soprusi? 
Ed è per questo, credo, che il 25 novembre è passato alla storia (o meglio, al calendario ) come la Giornata Internazionale contro la violenza commessa contro le donne


Anche se con un giorno di ritardo non potevo passare sotto silenzio questa piaga secolare, millenaria... questa inestirpabile mentalità sessista che giustifica, a volte velatamente e a volte in maniera esplicita, la sopraffazione del maschio sulla femmina, dell'uomo sulla donna. In virtù della superiorità di forza fisica, forse, o forse della memoria del passato maschilista assunta quasi inconsciamente: una disposizione, una volta che diventa abitudinaria, assume quasi lo status di "giusta" e in ogni caso diviene ovvia, banale, indiscutibile.
Quante storie di donne picchiate, abusate, violentate fisicamente, sessualmente, psicologicamente... costrette a sposarsi con sconosciuti o a convivere con mariti o compagni divenuti violenti, prepotenti, oppressori; a sentirsi quasi in colpa perché vogliono essere diverse, libere di realizzarsi e di realizzare se stesse anche e soprattutto a prescindere dal loro essere "illuminate"da una presenza maschile; che subiscono per anni prepotenze e abusi e che magari riescono, a volte, anche a convincersi che sia bene, che sia giusto così. E questo non avviene solo in quei Paesi che, con un inopportuno senso di superiorità, ci piace chiamare "del terzo (o del quarto) mondo", ma anche nella nostra "civilissima" Italia, in quell'Italia in cui persino alcuni personaggi politici di spicco (non faccio nomi ) esercitano violenza sulla donna una volta che la giudica solo sulla base delle sue apparenze esteriori, del suo poter soddisfare le voglie sessuali dei "maschi".
Abbiamo spesso, e a ragione, paura ad uscire da sole la notte... perché spesso sono le donne vittime di aggressioni, furti, stupri. Ma non sempre - dico cose ovvie, lo so - si è più sicure dentro casa.
Quanti esempi ci sono di donne/ragazze/bambine violentate, picchiate, uccise dal padre, dal fratello, dallo zio, dal patrigno, forse anche dal nonno... tutta quanta la scala parentale è coinvolta nella spirale di violenza domestico-famigliare.
Ho voluto evidenziare questa giornata perché penso abbia senso ricordare anche per scritto la condizione femminile, ancora tanto incerta, ancora troppo legata ai vecchi stereotipi di (presunta) superiorità maschile. Non voglio e non posso affermare l'opposta superiorità femminile, perché ritengo che uomo e donna non siano che due diversi generi di una stessa specie, caratterizzati sì da differenze biologiche, ormonali, che non possono assolutamente scusare una diversità di trattamento e considerazione, che non devono giustificare la superiorità di un genere sull'altro e l'oppressione di uno (quello "superiore") sull'altro (l'"inferiore").
La colpa spesso è degli uomini, certo, che ritengono di poter sopraffare la controparte femminile, di picchiarla, violentarla, ucciderla per il semplice fatto che "sono maschi", di discriminarla sul luogo di lavoro a prescindere dalle effettive capacità, di ignorare le possibilità e le potenzialità al di là di essere un "oggetto sessuale" (o semplicemente un "oggetto"). Ma a volte è anche nostra, che accettiamo quest'atteggiamento, che per acquiescenza lasciamo correre, che scusiamo i comportamenti del proprio compagno/marito ai limiti dell'inverosimile, che tolleriamo di essere ridotte a pure bambole imbellettate... e il cambiamento deve venire anzitutto da noi, se vogliamo che la situazione cambi, anziché accettarlo come benevolo dono del maschio. Non che con questo voglio dire che le donne contemporanee non stanno facendo niente... ce ne sono di ammirevoli che lottano e stanno lottando per una pari considerazione dei diritti; ma anche altre che si piegano allo stereotipo di "bambola-bella-e-per-questo-non-intelligente" che viene usualmente imposto... 
Ogni discriminazione - e quindi anche quella sessuale - svilisce e offende sia chi la porta avanti che chi la subisce e porta con sé solo umiliazione, frustrazione, rancore... e dolore. Un dolore che per quanto può essere velato o cinicamente mascherato sempre dolore è e non ha scuse.
Un dolore senza sfumature. Dolore e basta.
C'è un'affermazione stupida (udita chissà dove da chissà quale idiota) secondo cui in realtà alle donne piace essere trattate così. Come se quel dolore che ci viene imposto potesse metamorfizzarsi in piacere.
Per quanto il confine tra piacere e dolore sia labile, al punto che a volte tendono a mescolarsi, posso giudicare quest'affermazione semplicemente come una cazzata (scusate la finezza).
Ma è sulla scia di questa labilità di demarcazione tra il piacere e il dolore, di quegli stati (ben diversi, badate bene!, dalla violenza inflitta alla donna!) di confine in cui l'estremo piacere sembra mutare in sottile dolore, che inserisco la ricetta del post. Sfogliando una serie di schede di cucina che arrivano in omaggio per posta (sarà capitato anche a voi... mandano gli omaggi nella speranza di incentivare ad ulteriori acquisti), con in testa il progetto di cestinarle tutte (buttandole ovviamente nella carta da riciclare ), mi è cascato l'occhio su questa crostata. E l'ho voluta (anzi, dovuta) assolutamente provare.
Con la sua ipercalorica crema di cioccolato, essa muove dall'intimo del corpo, da ogni sua parte (cuore, cervello, stomaco, papille gustative, sguardo), una scarica di adrenalina e di libido straordinariamente sensuale, che tende però a cadere su una scia dolce di dolore (dovuto sia alla considerazione della quantità di calorie ingurgitate sia a quella caduta della parabola che, una volta raggiunto il suo apice, non può che decrescere ). 
La lussuria del piacere che induce me l'ha fatta (anche visivamente, non so perché) accostare al decadentismo, in cui l'eccessività del piacere andava a braccetto con un tenue sottotesto di dolore. Per questo ho deciso di nominarla (scelta del tutto arbitraria), 'Crostata Rimbaud', in onore di uno dei suoi massimi esponenti. 
In origine la presentazione della "crostata decadente" era nata in relazione ad una disquisizione sul piacere e sul dolore e la difficoltà di distinguerli... ma non potevo tacere del 25 novembre e mi è sembrato ovvio e giusto dare al post un approccio differente.


[...] e forse è per vendetta
e forse è per paura
o solo per pazzia, ma da sempre
tu sei quella che paga di più
se vuoi volare ti tirano giù
e se comincia la caccia alle streghe
la strega sei tu
(Edoardo Bennato: "La fata")



Crostata Rimbaud con salsa di cioccolato, cacao e riccioli di cioccolato


giovedì 18 novembre 2010

La maieutica dell'amicizia e due "passaggi di testimone": la Staffetta dell'amicizia di Kia e la focaccia con pasta madre (in sue tre versioni)

Nel nostro parlare comune spesso (quasi sempre direi) usiamo un sacco di parole senza interrogarci davvero su quello che significano... o sul valore che gli diamo noi nel momento in cui le usiamo. Spesso nei nostri discorsi ricorrono termini che, se analizzati specificatamente e attentamente, risultano ben diversi - nel loro significato reale - da quello che gli attribuiamo, o estranei al contesto in cui lo usiamo: penso, ad esempio, all'uso indiscriminato (quasi criminoso, oserei dire) che facciamo del termine "depressione", o "depresso", dimenticandoci - o fingendo di dimenticare - il significato reale, patologico, della depressione, e la condizione reale delle persone che designa. Forse non è del tutto sbagliato però... da una specie di fraintendimento, di slittamento del significato, si possono ottenere nuovi modi di intendere un termine. E' così, anche, penso (non sono linguista né studiosa di lingue quindi le mie son supposizioni), che la lingua si evolve, cambia, si articola.
Ma è anche vero che quasi mai ci chiediamo che senso hanno i termini che usiamo. Spesso lo diamo per scontato e, così facendo, ci sfugge del tutto. Saranno dieci anni che penso che una sorte del genere è stata riservata al termine "amico"... ci penso da quando cominciavo già a farmi tutta quella serie di paranoie che mi ha condotto alla scelta di filosofia come di mia materia di studio all'Università, in cui già cominciavo a sviluppare quel sottile, a  volte subdolo, decisamente filosofico, artificio mentale tale da rendere ragionevole e argomentabile ogni impressione o convinzione (in breve, la capacità sviluppata negli anni universitari di farmi - almeno teoricamente - "farmi tornare" le cose in maniera straordinaria): mi trinceravo infatti dietro al fatto che i giovani chiamano "amici" più o meno chiunque per giustificare (ai miei occhi, alla mia coscienza) il fatto che io, di cosiddetti "amici", ne avevo pochi o punti. 
Era tutta una mia ipocrisia mentale che veniva incontro alla mia adolescenziale crisi per mancanza di amici, confidenti, coetanei con cui semplicemente parlare e condividere esperienze... era un modo per scusare con me stessa di essere com'ero, per convivere con una me stessa sola. E la solitudine, si sa, è dura da mandar giù se non la si sceglie.
Eppure non credo di aver avuto del tutto torto, allora... perché "amico" è uno dei termini più usati e abusati da bambini, adolescenti, adulti e anziani, oltre che passato per bocca dai maggiori canali di informazione (televisione in primis) condito nelle più diverse salse. 
E come tutte le parole abusate, spesso se ne perde il senso... spesso le si usa non limitandoci a mutare il significato reale (sempre che una simile assoluta realtà del significato esista) ma senza nemmeno dargliene uno. 
Che cos'è un amico? che cos'è l'amicizia?
Porsi questa domanda (maieutica, socratica, basilare) vuol dire interrompere un attimo quell'affannarsi dietro alle cose caotiche del mondo per fermarsi un attimo. 
Che cos'è l'amico? cos'è che io chiamo amico?
A 14 anni forse lo sapevo cos'era l'amico... o almeno mi ero costruita una definizione ad hoc giusto per mostrare che di simili rapporti non ne avevo. Adesso sono passati dieci anni... non posso dire di essere meno sola, e mi farebbe comodo credere ancora nelle definizioni ad hoc di adolescenziale memoria; ma non ho più quella puerile sicurezza di sapere definire esattamente qualcosa (o qualcuno)... anche se sono convinta che il termine "amico" designa sì qualcuno e lo può designare a molteplici livelli.
La nostra conoscenza delle persone si articola in livelli numerosi e per qualcuno di questi è appropriato, credo, usare il termine "amico", caricato ogni volta di un'intensità, un'emotività, un trasporto, (un significato, direi ) diversi. L'amico è diverso dal conoscente, è diverso dal vicino di casa, è diverso dal compagno di scuola, di corso, di università... anche se non è detto (per quanto riguarda gli ultimi quattro casi) che possano coincidere.
L'amico è una persona che conosci, che ti conosce quanto meno da una prospettiva del tuo esistere. L'amico può essere quello cui confidi i tuoi segreti, la persona di cui sai di poterti fidare in ogni caso (per "affinità elettiva", perché la conosci da così tanto tempo da conoscerla come fosse un'appendice di te stesso... o come se tu fossi una sua appendice); ma è anche quella persona con cui scatta un'affinità immediata, di getto, con cui sei sempre in sintonia, con cui riesci a stringere una immediata complicità, una persona con cui semplicemente sei felice di trascorrere il tempo; è anche quella persona con cui condividi una passione, un interesse, un argomento, in un modo tanto intenso da unirvi strettamente. E non necessariamente queste tre caratteristiche cui accenno (sono certa che non sono le uniche... ma sono le prime che mi sono venute in mente) sono e devono essere separate... magari avete la fortuna di chiamare amico una persona che conoscete e che vi conosce quasi alla perfezione, una persona in cui riponete totalmente la fiducia, con cui avete instaurato un rapporto di sintonia e complicità e a cui siete uniti da un interesse comune.
E sulla base di questo - almeno sulla base della comune passione - non è insensato parlare di amicizia anche tra (food)bloggers, uniti (quanto meno) dalla comune passione per la cucina, dal desiderio di condividerla, di mettersi e di metterla in discussione (se uno non vuol essere messo in discussione non si mostra alla visione globale della rete di internet) e di scambiare ricordi di impressioni, di esperienze, di interrogativi. Accolgo quindi con gioia, senza ritenerlo per niente fuori luogo, l'invito di Kia di Equo, Eco e Vegan* alla Staffetta dell'Amicizia che da un po' di tempo a questa parte gira nel web.
Ringrazio Kia dell'avermi riconosciuta come "amica" - anche se solo a livello virtuale - anche in virtù della stima che provo per lei e per il lavoro che fa e che porta avanti sul blog (e senza dubbio anche nella vita non Internettiana) 
Come il regolamento della Staffetta impone, mi appresto a pubblicare il logo della stessa (della Staffetta, intendo) e a rispondere alle 8 domande incluse nella Staffetta stessa, domande che permettono di svelare un po' di più di sé, di essere e sentirsi più vicini con gli altri bloggers, pur essendo (fisicamente) probabilmente molto lontani:




1) Quando da piccoli vi domandavano cosa volevate fare da grandi cosa rispondevate?
La cantante lirica


2) Quali erano i vostri cartoni animati preferiti?
I gemelli del destino, Mila&Shiro, Un incantesimo dischiuso tra i petali del tempo, Occhi di gatto, E' un po' magia per Terry e Maggie, Il Re Leone, Red&Toby, Aladdin



3) Quali erano i vostri giochi preferiti?
Lupo mangiafrutta, nascondino, fingersi animali e inventare storie con noi-personaggi-animali, giocare con i peluches, lotta maschi vs. femmine (organizzata nel grande giardino delle scuole elementare nel lungo intervallo del giorno in cui rientravamo a scuola anche dopo pranzo)



4) Qual è stato il più bel vostro compleanno e perchè?
Non ricordo compleanni davvero belli... ma ho ancora in mente l'ebbrezza di quello dei 18 anni, forse perché riuscì tutto alla perfezione, perché riuscii a invitare e a coinvolgere un sacco di persone e perché fui, più di altre volte, la protagonista indiscussa della serata.


5) Quali sono le cose che volevate assolutamente fare e non avete ancora fatto?
Visitare la Nuova Zelanda e Parigi; tornare in Turchia e visitare Istanbul; leggere "Guerra e Pace"; trovare il coraggio e le possibilità per trasferirmi all'estero (ambisco all'Inghilterra o agli Stati Uniti)


6) Quale è stata la vostra prima passione sportiva e non?
La scherma per quanto riguarda la passione sportiva; per la passione non sportiva... l'opera lirica.



7) Quale è stato il vostro primo idolo musicale?
Fatta eccezione per i cantanti lirici (dai nomi non ben identificati anche perché per me bambina l'unica cosa importante era che quelli stavano sul palco e cantavano arie, cavatine, etc)... direi Max Pezzali.


8) Qual è stata la cosa più bella chiesta(ed eventualmente ricevuta) a Babbo Natale, Gesù Bambino, Santa Lucia?

Per me Babbo Natale... tra tutti i regali che ho avuto credo la bicicletta "da grandi con le marce" (la mountain bike).




Il regolamento adesso impone di girare la staffetta ad altri 14 bloggers... E anche se la tentazione forte sarebbe di porgere il testimone ad ogni persona che si ferma a leggere il mio post, faccio con piacere i nomi di Zy di Pasticci Patapata, di Lorenzo di Logos nella Nebbia, di Ambra de Il gatto ghiotto, di Zori di Dreming in the kitchen, di Magie dolci di Magie dolci... e non solo, di Ambra de Lo spazio di b, di Maetta di Che gusto sa???, di Flavio di Aspassoincucina, di Gaia de La gaia celiaca, di Martina di Nella cucina di Martina, di Elisa di Aggiungi un posto a tavola,di Susy di Cucinare con me, di Elisabetta di Da nonna 'Sabbella, di Anna di Dolci e pasticci di una zerofolle in cucina e di Pagnottella de Il gaio mondo di Gaia .
Dovrebbero essere quattordici... anche se avrei un'infinità di altri bloggers da nominare, semplicemente per le belle ispirazioni culinarie che tutti mi danno, alle belle riflessioni e impressioni che vi leggo, agli insegnamenti che mi trasmettono. Credevo che 14 fosse un numero esageratamente grande... invece mi rendo conto che lascia fuori altre persone che meriterebbero allo stesso modo il "passaggio di testimone".
Ho in serbo un altro "passaggio di testimone", però, che coinvolge tutti, che siano bloggers oppure no, un "passaggio" che non esclude nessuno, che non si aspetta peraltro nessun genere di ringraziamento o di riconoscimento, se manca la voglia o il gusto di cogliere il "passaggio" e di provare a gustarlo. Si tratta di una ricetta, ovviamente , che ci tengo tanto a condividere con voi per la sensazione di estasi papillare che ha portato in famiglia, al punto da divenire un atteso, gradito, meraviglioso, appuntamento settimanale.
Quando sono tornata dalla Turchia mia madre l'aveva già scoperta, già più volte provata (ricordo che me ne enunciò le virtù quando ancora ero in quel di Bodrum e comunicavamo via Skype) e corretto le dosi a seconda della riuscita o meno della focaccia... perché sì, sto parlando di una focaccia, che in origine era una Focaccia Barese (a quanto ho capito - ma non ne sono certa - chiamasi focaccia barese un tipo particolare di focaccia in cui è prevista la "guarnizione" con pomodorini) e che lo è rimasta anche per noi (appena tornata infatti mi sono affiancata a mia madre nella preparazione della focaccia) finché è passata la stagione dei pomodori... allora abbiamo sostituito la "guarnizione superiore" con le patate tagliate fini fini (grattugiate, direi) o con le cipolle rosolate in olio. In questo momento è in forno il primo tentativo di proporla "nuda", senza nulla sopra... il progetto è di approntare per stasera una goduriosa cena a base di focaccia farcita! 
Benché la fonte prima sia stata per me, anzitutto, mia madre, la reale (e doverosamente citabile) fonte sul web è Annaferna di Annaferna-mordiefuggi, che ringrazio per avermi fatto conoscere (anche se indirettamente) una focaccia così deliziosa, così appagante e rilassante per i sensi .




"Amici, non ci sono amici!" così esclamò
il saggio morente;
"Nemici, non ci sono nemici!" esclamo io,
lo stolto vivente.
(Friedrich Nietzsche: "Umano, troppo umano")




Focaccia con pasta madre 
(nelle tre versioni: con pomodori, patate e cipolle)

Ingredienti per l'impasto
- 150 g di pasta madre rinfrescata la sera prima
- 300 g di farina 00
- 200 g di farina di semola
- 200 g di patate lessate e passate allo schiacciapatate
- 200 ml di acqua 
- un cucchiaino di sale
- 3 cucchiai di olio di oliva

Procedimento: La mattina tra le 8,30 e le 9,00 cominciate ad impastare: mescolate le due farine con le patate lessate e ridotte in pappa grazie allo schiacciapatate e con il sale. Scaldate l'acqua per intiepidirla ed aggiungeteci un cucchiaio di olio, facendo ben attenzione ad emulsionarlo in acqua; mettete nel contenitore in già avete l'olio e l'acqua anche la pasta madre che avrete rinfrescato la sera precedente, così da averla attiva e vitale la mattina.
Aggiungete il composto semi-liquido di olio/acqua/pasta madre alla miscela di farina/sale/patate e, una volta ottenuto un composto omogeneo e lavorabile, lavoratelo con le mani per una decina di minuti. Verrà un impasto molto morbido, a volte appiccicoso (la possibilità dell'"appiccicosità" dipende dalla consistenza delle patate): se vi sembra opportuno, aggiungete un po' di farina, facendo però attenzione a lasciare l'impasto bello morbido ed elastico.
Fate una palla e mettetela a lievitare in un contenitore coperto con un panno umido tenuto in luogo tiepido.
Verso le 17,00-17,30 prendete la teglia in cui cuocerete la focaccia (io ho usato una teglia rettangolare con i lati di 30x32 cm) e ungetela bene con i due cucchiai di olio rimasti. Riprendete l'impasto lievitato e rovesciatelo sulla teglia, livellandolo con le mani unte d'olio:


Mettete l'impasto "integliato" a lievitare per altre due ore. 
E' a questo punto che le nostre strade si dividono in tre, perché i percorsi sono diversi se si sceglie di fare la versione con pomodori o la versione con patate o quella con cipolle. 



Tomatoes version 
Ingredienti per la copertura
- pomodori o pomodorini finché ce ne stanno sulla focaccia 
- olio, origano, sale


Procedimento: Una volta trascorse le due ore dell'ultima lievitazione, accendete il forno a 220° C. Mentre attendete che il forno si scaldi tirate fuori la focaccia lievitata nella teglia e conditela con i pomodori tagliati a fette, con il sale, l'origano e ancora olio.
Cuocete per 25 minuti.


particolare della fetta




Potatoes version
L'ispirazione per la preparazione della "copertura di patate" è venuta dalla consultazione della Pizza di patate di Chiadar del Ricettario di Bianca... io, da me, non credo ci avrei mai pensato .


Ingredienti per la copertura
- circa 600 g di patate
- olio, sale, pepe, origano per la marinatura
- qualche foglia di salvia


Procedimento: Una mezz'oretta prima che scadano le due ore dell'ultima lievitazione (vero le 18,30-19,00 quindi) prendete e sbucciate le patate e passatele alla mandolina o grattugiatele nel buco più grande della grattugia.
Mettete a marinare le patate grattugiate in fettine sottilissime in una marinatura composta da abbondante olio, sale, pepe, origano.
Quando il tempo di lievitazione è scaduto, accendete il forno a 220° C e, mentre aspettate che scaldi, approntate la copertura: prendete la teglia con la focaccia e distribuitevi sopra le patate marinate.
Fate attenzione perché tendono a rilasciare acqua: quindi più che buttarle con malagrazia sulla povera focaccia prendetele a pugnetti, con le mani, dalla ciotola in cui le avete messe a marinare e strizzatele per scolare l'acqua in eccesso. Poi distribuitele volta volta sulla focaccia, sovrapponendole leggermente fino a coprire l'intera superficie. Terminate con qualche foglia di salvia spezzettata da mettere sopra la copertura di patate ed infornate per 25 minuti.
Ed ecco ciò che ne esce:



particolare della fetta

Onions version
Ingredienti per la copertura
600 g di cipolle
- olio 


Procedimento: Ben prima che scadano le due ore di lievitazione (le cipolle rosolate devono freddare! ), prendete le cipolle e tagliatele a rondelline. Mettetele a rosolare in olio e fatele cuocere, a fuoco dolce, anche per una mezz'oretta, così che si ammorbidiscano molto (se è il caso, aggiungete dell'acqua). Poi mettetele da parte e lasciatele raffreddare.
Una volta che sono trascorse le due ore, accendete il forno a 220° C e tirate fuori la focaccia messa a lievitare nella teglia. Spargetevi sopra le cipolle rosolate e fatte raffreddare e cuocete per 25 minuti.

particolare della fetta
Tutte e tre le versioni assaporate tiepide sono uno sballo! .
Ma si mantengono eccellenti anche nei giorni successivi .






Siamo così giunti al termine di questa amichevole rimpatriata. Con amicizia sincera vi saluto, passandovi un paio di testimoni (anzi un poco di più di un paio, se il testimone della focaccia vale per tre come tre sono le versioni che ho postato ) e sperando che ve li godrete appieno, a livello sia mentale che sensoriale.
Vi auguro una buona serata... con affetto...




Giulia









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